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Alcamo, la strage dei carabinieri del 1976

Di Rino Giacalone il . Sicilia

 Un «furgone» che attraversa la strada di Alcamo Marina, due carabinieri che danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta, e scoprono che dentro ci sono strane casse. Armi. La loro casermetta è a pochi metri, portano gli uomini trovati a bordo di quel furgone dentro la caserma per il verbale. L’indomani i due carabinieri verranno trovati morti ammazzati. Una pattuglia di Polizia che scorta il leader Msi Almirante passa da quel luogo e nota cancello e porta aperta. Nessuno degli agenti entra, tocca ai carabinieri di Alcamo fare la scoperta dei due colleghi uccisi. Si chiamavano Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo.

È quella che dal 26 gennaio 1976, data dell’eccidio, è conosciuta come la strage della «casermetta» dei carabinieri di «Alcamar» (Alcamo Marina, provincia di Trapan). Le indagini sulla strage sono state riaperte da quando un ex brigadiere dell’Arma, Renato Olino, ha raccontato e confermato ai magistrati della Procura di Trapani che i condannati per quella strage con quei morti non c’entravano nulla, e l’inchiesta ripartita ha riportato i magistrati sulle tracce di «Gladio». La presenza di Gladio a Trapani è certificata nei primi anni ’90, il centro “Scorpione”, in ultimo affidato alla guida di un maresciallo del Sismi, Vincenzo Li Causi, morto durante uno strano conflitto a fuoco nel novembre 1993 in Somalia. 

L’indagine sulla strage della casermetta induce a ritenere che Gladio a Trapani ci fosse già da molto tempo prima. Alcamo Marina, 26 gennaio 1976: su quel furgone fermato dai carabinieri Falcetta e Apuzzo c’erano «gladiatori», appartenenti alla struttura creata per fronteggiare il pericolo comunista ma che in più casi si scopre essere stata usata per altro, strategia della tensione, rapporti con organizzazioni eversive, traffici di armi, forse anche la mafia. C’è un rapporto del dicembre 1976 dell’allora capo della Squadra Mobile di Trapani Giuseppe Peri mandato a diverse Procura d’Italia ma rimasto “non trattato”. Il vice questore Peri aveva raccolto elementi di contatti tra la mafia e settori dell’eversione di destra a proposito della strage della casermetta, e dei sequestri degli imprenditori e possidenti Campisi e Corleo.

La traccia è quella che porta anche a possibili campi di addestramento di neo fascisti alle pendici della montagna di Erice. La pista è quella che negli anni a seguire è quella che vede possibili contatti tra esponenti del terrorismo di destra e uomini della mafia.

 Oggi c’è un altro poliziotto in questa storia, che è stato sentito come teste in Procura su richiesta della difesa (avv. Maurizio Lo Presti) di due degli imputati condannati per la strage di Alcamo Marina (Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo): il quadro emerso per quel gennaio del 1976 è quello di un traffico di armi «compiuto da settori istituzionali deviati» (il virgolettato appartiene ad una carta della Procura di Trapani). Quel poliziotto ha ammesso che una «fonte» gli riferì la «vera storia» di quella strage.

Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messainscena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno. L’indomani di buon mattino, il 27 gennaio 1976 la scoperta di quei due poveracci uccisi, uno nella sua branda, l’altro nel corridoio. Dagli armadi erano spariti divise, armi e forse qualcosìaltro. ‘Per la morte dei due carabinieri furono incolpati soggetti che non c’entravano nulla: uno morto suicida pochi mesi dopo l’arresto per quella strage, Giuseppe Vesco, un altro deceduto negli anni a seguire di morte naturale, il «bottaio» di Partinico Giovanni Mandalà, due scappati in Brasile, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, e infine l’unico finito in carcere, condannato alla pena più pesante, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta. Vesco si era autoaccusato e aveva fatto i loro nomi, indicandoli come complici. Loro si erano anche autoaccusati. Poi erano giunte le ritrattazioni, raccontarono di torture subite. Raccontarono che furono interrogati con metodi a base di acqua e sale e scariche elettriche sui genitali.

In primo grado furono assolti ma al processo davanti la Corte di Assise di Trapani Giuseppe Vesco non ci arrivò, morì prima, venne trovato suicida in carcere, impiccato ad una finestra della sua cella, ci riuscì nonostante fosse monco di una mano. Un paio di settimane dopo quella strage il 12 febbraio 1976 Vesco fu il primo ad essere fermato, ad un posto di blocco fu trovato con un’arma matricola abrasa una di quelle risultata sottratta dalla caserma di Alcamo Marina, Vesco sostenne che un tizio gliela aveva data perchè lui facesse da «postino» per consegnarla ad altro soggetto, ma sulla sua strada trovò quel posto di blocco dei carabinieri.  

Sono tre le indagini che ruotano attorno alla strage dei carabinieri di Alcamo Marina. Una è già andata in archivio ed è quella relativa alle torture subite dai giovani poi arrestati e condannati, almeno quelli sopravvissuti e cioè Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giuseppe Gulotta. Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino che all’epoca faceva parte dei gruppi antiterrorismo dei Carabinieri di Napoli, venuti apposta ad Alcamo per indagare sulla strage, hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel «gruppo»: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, avrebbero potuto chiarire, spiegare cosa era accaduto. Da loro nè conferme nè smentite.

Le «voci» a conferma sono state altre, quelle dei loro familiari che intercettati in questi mesi di indagini riaperte sono stati ascoltati commentare la convocazione in Procura dei loro congiunti ricostruendo la storia che conoscevano molto bene di quei poveri disgraziati fatti autoaccusare della strage. I familiari sapevano e si sono dimostrati a conoscenza anche dell’escamotage usato dai loro congiunti per far risultare come non veri i racconti sulle torture: arrivarono a cambiare l’arredamento delle stanze di una caserma dove gli arrestati erano stati sottoposti agli interrogatori “parecchio pesanti”, e così quando si fecero i sopralluoghi la collocazione di camere e uffici risultò diversa da quella descritta dagli impuatti che sostenevano la loro non colpevolezza.

Indagine sulle torture comunque in archivio. Ma servita a far ripartire un processo di revisione, quello a favore di Giuseppe Gulotta che tornerà sotto processo davanti la Corte di Assise di Reggio Calabria. Oggi è un ergastolano in semi libertà, i suoi avvocati Pardo Cellini e Baldassare Lauria hanno chiesto la sua scarcerazione, la sospensione della pena dell’ergastolo, perchè da libero possa seguire il dibattimento. La Corte di Assise dovrà decidere alla prima udienza, il procuratore generale di Reggio Calabria ha già dato parere favorevole. Restano in Brasile Ferrantelli e Santangelo, per loro ancora non c’è alcuna richiesta di revisione del processo.

C’è poi l’inchiesta su chi ha davvero ucciso i due carabinieri. È per adesso contro ignoti. In questo procedimento è stata raccolta la testimonianza di quel poliziotto che negli anni ’90 ebbe raccontato da una «fonte» quello che era successo in realtà quel 26 gennaio del 1976. Una «fonte» attendibile che all’epoca dei loro contatti, 1993, gli fece fare altre scoperte, come il super arsenale trovato in un garage di una villetta appena fuori Alcamo, le cui chiavi erano tenute da due carabinieri, La Colla e Bertotto: una polveriera ben fornita che si sospettò essere uno dei depositi di «Gladio» che all’epoca era diventata una struttua conosciuta e non più segreta. Apuzzo e Falcetta il 26 gennaio 1976 fermarono un furgone che non doveva essere bloccato. E per questo furono uccisi perchè non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non fa
r svelare qualcos’altro che all’epoca stava accadendo.

Il pentito di mafia Leonardo Messina ha parlato dell’uccisione dei due carabinieri inserendo la strage in contesti ancora più clamorosi, l’esistenza di un patto tra mafia, eversione e servizi deviati che avrebbe dovuto alzare il tono alla strategia della tensione. Alcamo in questi scenari ha semrpe un ruolo, anni prima c’erano anche i mafiosi della famiglia Rimi di Alcamo col principe Borghese per quel colpo di Stato fermato in tutta fretta quando proprio i mafiosi siciliani erano già entrati al ministero dell’Interno. C’è un altro pentito che parla della strage della casermetta, ed è Peppe Ferro, lui si limita a dire che quelli arrestati non c’entravano nulla e la mafia alcamese lo sapeva molto bene.
 
La terza indagine è una faccenda riesumata di questi tempi. Riguarda la storia di un cadavere trovato negli anni 90 quasi mummificato nelle campagne di Alcamo. Un corpo senza testa. E anche qui c’è un colpo di scena che però ancora non ha preso del tutto forma. Si vocifera di possibili traffici di armi continuati nel tempo, della presenza di «polveriere» segrete tra Alcamo, Alcamo Marina e Castellammare del Golfo. Quel corpo senza testa apparterrebbe alla vittima di un conflitto a fuoco avvenuto durante uno scambio di armi.

La zona è quella di Calatubo campagne tra Alcamo e Castellammare del Golfo, dove sarebbe esistita una pista segreta dalle parti di un viadotto dell’Autostrada A 29 Trapani-Palermo, da dove potevano atterrare e decollare veivoli super leggeri, che agevolmente potevano passare sotto quegli alti piloni.  La storia purtroppo non si ferma qui. C’è un investigatore che ha indagato su questi traffici di armi all’ombra di «Gladio» che oggi combatte con un tumore. Il medico che lo ha in cura ha sostenuto che questo genere di cancro può essere contratto in particolari condizioni, con contatti diretti che quel poliziotto mai può avere avuto.

Lui ha raccontato che un giorno si trovò due strane «barre» tra le mani in un nascondiglio trovato sempre nell’alcamese dove quando ci tornò con i colleghi non c’era più nulla.

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