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Processo Setola, c’è solo la società civile

Di Toni Mira il . Campania

Società  civile? Presente. Amministrazioni comunali? Assenti. Comincia così, con importantissime presenze e clamorose assenze, il primo processo a Giuseppe Setola e al gruppo camorrista che ha insanguinato la provincia di Caserta per oltre un anno. La novità è la costituzione di parte civile di tre associazioni, la Federazione antiracket italiana (Fai), il Coordinamento napoletano delle associazioni antiracket e “Mo’ basta !”. Non era mai successo in un processo contro il clan dei casalesi. 

Un bel segnale di cambiamento: i veri casalesi contro quelli che ne usurpano il nome. Mancano, invece all’appello, nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere, i rappresentanti delle istituzioni. Si era parlato nei giorni scorsi della costituzione di parte civile del ministero dell’Interno e di molti comuni dell’Agro Aversano e del litorale Domizio. Non si è presentato nessuno. Certo tra i fondatori di “Mo’ basta!” c’è anche il Consorzio Agrorinasce, del quale fanno parte sei comuni, ma è solo una presenza indiretta. 
Eppure appena 8 mesi fa, in occasione del 15mo anniversario dell’uccisione di don Peppe Diana, tutti i 19 sindaci della zona avevano firmato pubblicamente un documento nel quale si impegnavano a costituirsi parte civile in tutti i processi di camorra. Invece nel primo, e più importante, che deve giudicare l’ala stragista del clan bidognettiano dei casalesi, mancano all’appello. Così come mancano le associazioni degli imprenditori, da Confindustria a Confcommercio, malgrado il processo riguardi soprattutto una miriade di estorsioni. E manca anche la stampa, niente Rai, Mediaset o tv locali. Niente grandi testate nazionali. Presenti, oltre ad Avvenire, due soli giornalisti locali. 
Malgrado le gesta della sanguinaria cosca abbiano riempito pagine e pagine di tutti i quotidiani. Oggi i riflettori sono spenti. Eppure i camorristi sono qui, in 25 dentro le grandi gabbie dell’aula bunker. O collegati in videoconferenza quelli che si trovano al 41bis, il regime carcerario duro, o i collaboratori di giustizia. Uno dei video inquadra Giuseppe Setola. Il boss che a colpi di kalashnikov e di terrore voleva riconquistare il territorio, è seduto in un angolo, indossa un banale maglioncino, non ha alcun segno di reazione. Gli altri, dentro le gabbie, sorridono, salutano le decine di familiari (loro sì che sono presenti in massa…), mandano baci e “segnali”. Ma sono “dentro”. I responsabili del tentato omicidio di Maria e Francesca Carrino, sorella e nipote di Anna Carrino, collaboratrice di giustizia ex compagna del boss Francesco Bidognetti, cicciotto ‘e mezzanotte. 
Quelli del tentato omicidio di Salvatore Orabona, la famosa azione registrata in diretta dalle cimici dei carabinieri. E poi i compagni di Setola nella fuga nelle fogne di Trentola Ducenta. Sono tutti lì. Assistiti da una miriade di legali. Dall’altra parte, oltre a giudici e pm, solo i tre avvocati di parte civile. Quasi corpi estranei, indesiderati. Quando il presidente del tribunale Raffaello Magi legge il nome della Fai, si sente distintamente una pernacchia. E poco dopo l’avvocato di Setola fa una prima contestazione alla costituzione di parte civile delle due associazioni antiracket. Un messaggio molto chiaro, subito disinnescato dal presidente Magi, magistrato di grossa esperienza, essendo stato l’estensore della sentenza Spartacus, il maxiprocesso ai casalesi. Solo un’avvisaglia. La battaglia è rinviata al 2 dicembre. Sperando che allora a tenere la prima fila dei veri casalesi non sia solo il volontariato.

*capo redattore L’Avvenire

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