Una Repubblica fondata sulla “trattativa”
La democrazia in un Paese talvolta è questione di tempo. Quello che intercorre fra una verità giudiziaria e una storica, quello che intercorre fra una memoria persa e una ritrovata, fra una morte sulla quale è stata fatta giustizia e una sulla quale è calato il silenzio. Due anni fa, prima della nascita del movimento delle agende rosse, prima delle dichiarazioni del pentito Spatuzza e del dichiarante Massimo Ciancimino, ad un incontro pubblico, in memoria del 15esimo anno dalla scomparsa del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta, dentro le mura di un Palazzo di Giustizia di Palermo, una voce si distinse dalle altre: quella del pm Antonino Di Matteo. Rompendo quel rito annuale il magistrato ebbe il coraggio della chiarezza, dell’indignazione. Le sue parole rilette oggi assumono un significato ancora più lancinate. “Io mi chiedo – disse Di Matteo – che Paese è un Paese che ha rinunciato a sapere la verità? Un Paese nel quale di fronte all’emergere di stralci di procedimenti giudiziari circa le responsabilità di soggetti non organici a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio si è lasciato tutto nel silenzio.[…]. Quello intorno alle indagini sulla strage non è stato – continua Di Matteo – un calo di attenzione fisiologico, c’è stato qualcos’ altro”.
Oggi è forse più chiaro a cosa si stesse riferendo quel magistrato che seguì proprio a Caltanissetta le prime indagini sulle stragi e che raccoglie, insieme al magistrato Antonio Ingroia, le dichiarazioni del figlio di Vito Ciancimino, snodo principale della presunta trattativa fra Stato e mafia. Da quest’estate un movimento spontaneo di giovani si è raccolto accanto all’urlo del fratello di Paolo, Salvatore Borsellino, chiedendo verità e giustizia per quella strage non solo di mafia, per quella trattativa che a Contromafie il procuratore nazionale Piero Grasso ha definito “inaccettabile” dopo aver dichiarato giorni prima ai microfoni del Tg3 “che la trattativa ci fu e salvò la vita a molti uomini politici”. Qualche giorno dopo in Commissione antimafia il procuratore ha fatto di più: ha sollevato dubbi sul metodo stragista che da Capaci in poi Cosa nostra adottò per far fuori quei due magistrati scomodi per i piani della mafia dopo il maxi processo. Che Paese è questo? Abbiamo girato la domanda al sostituto procuratore di Palermo, Antonio Ingroia, amico e collega di Paolo Borsellino.
Sono state riaperte quest’estate le indagini su Capaci e via d’Amelio presso la procura di Caltanissetta. Riferendosi a quest’inchiesta al recente Forum antimafia di Firenze lei ha detto “C’è una parte di Paese che non vuole queste verità”. Quale?
L’intera storia d’Italia è contrassegnata dal fronteggiarsi di due Italie. Un’ Italia fatta di persone che vogliono davvero verità e giustizia, a tutti i costi e senza sconti per nessuno. E un’altra parte d’Italia che percepisce il rischio che ci siano verità imbarazzanti, difficili e hanno messo in atto una serie di ostacoli affinché queste verità non vengano fuori. Come finirà? dipenderà essenzialmente dall’esito di questo confronto che ha caratterizzato la storia d’Italia degli ultimi dieci anni, il nostro futuro e quello della democrazia.
Un altro elemento che torna dopo molti anni al centro del dibattito pubblico è “la trattativa”, ovvero quel dialogo che (pare) si aprì fra esponenti delle istituzioni e esponenti mafiosi negli anni delle stragi. Al di là delle ricostruzioni giornalistiche, delle dichiarazioni di politici, che ricordano dettagli trascurati per 17 anni, cosa possiamo con certezza dire in merito alla cosiddetta “trattativa” oggi?
Paradossalmente sono uno dei più informati sui fatti ma anche uno dei meno indicati a rilasciare dichiarazioni in merito. Tuttavia si posso dire alcune cose. Già in passato erano emersi elementi significativi che comprovavano l’esistenza di una trattativa a cavallo delle stragi e subito dopo, fra il ’92 e il ’93. Questi elementi sono stati convalidati anche in sentenze, passate in giudicato (quelle sulle stragi) che parlano esplicitamente di questa trattativa fra la mafia e alcuni esponenti dello Stato. Poi c’è un fatto nuovo. Negli ultimi mesi, per una serie di circostanze, che hanno avuto inizio principalmente con le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, si è innescata una reazione a catena che ha fatto si che venissero fuori molti nuovi elementi. Ricordi, circostanze rese note da parte di testimoni o protagonisti istituzionali del tempo. Questi episodi letti in modo coerente, confrontati gli uni con gli altri e con le risultanze processuali già in possesso dei magistrati, hanno fatto ritenere convalidata la tesi e l’ipotesi di una trattativa.
La trattativa c’è stata, dunque?
Questi elementi – dicevo – hanno fatto ritenere convalidata l’ipotesi che una trattativa ci sia stata e si sia dipanata fra il 1992 e il 1994, e forse anche oltre. Questa trattativa ha impegnato uomini di mafia, anche diversi nel tempo se consideriamo che partì con Totò Riina – che poi venne arrestato – che continuò pare con Vito Ciancimino – a sua volta finito in carcere – e in seguito non si è fermata ma è andata avanti; ci sono quindi state delle sostituzioni. Dalle risultanze processuali pare che queste sostituzioni non siano avvenute solo da parte mafiosa ma anche dall’altra parte, tant’è che si è parlato, semplificando, di una prima, di una seconda trattativa e cosi vià … Non posso entrare nel dettaglio di questi aspetti ma credo che queste indagini assumano un’ importanza non solo per le responsabilità penali connesse ma perché riguardano la storia del nostro Paese. Lo dico senza enfasi ma con convinzione: fare luce su quella stagione è fondamentale perché se trattativa ci fu – come pare – e se ad un certo punto si concluse, i risultati sono diventati visibili negli anni successivi e forse anche noi oggi paghiamo le conseguenze di quella “trattativa”. Anche noi siamo in sostanza figli di quella trattativa, l’intera seconda Repubblica lo è. Non è possibile oggi capire cos’è quest’ultima se non verranno chiarite sino in fondo le sue origini.
La politica ha giocato un ruolo singolare in queste indagini. Solo oggi dopo 17 anni molti uomini politici parlano di episodi accaduti nei 58 giorni che divisero la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Perché testimoni dell’epoca, come Violante e Martelli, parlano solo oggi – cos’è cambiato?
Molti di loro erano già stati interrogati dalla magistratura anche in quegli anni, chiaramente non in merito alla “trattativa”, di cui ancora nulla si sapeva, ma intorno a quella stagione, e nulla dissero in merito. Possiamo oggi prendere per buona la versione di ciascuno di loro: erano in possesso di singole circostanze e particolari cui non avevano attribuito particolare significato poiché presi singolarmente; significato che avrebbero rintracciato invece oggi alla luce del contesto raccontato da Ciancimio Junior. Trovo prematura tuttavia una valutazione su questo “ritardo” mentre credo che sia importante la valutazione di questi ricordi, seppure tardivi. Mai come in questa occasione, inoltre, se altri uomini delle istituzioni sono in possesso di notizie/informazioni, come personalmente credo, è giunta l’ora di parlare.
Un documento da molti ritenuto “centrale” per provare la trattativa è da poco giunto alla procura di Palermo, cosa può dirci sul cosiddetto “papello”; è l’unica prova o potrebbero essercene altre?
Non posso entrare nel dettaglio dell’indagine quello
che posso dire è che, da quanto emerge da cose ormai pubbliche, il cosiddetto papello sarebbe stato uno di primi passi della trattativa. Sarebbe stato scritto da Riina, ma è verosimile e plausibile che la trattativa sia proseguita a prescindere da quel “papello” e che dopo non ci siano stati più dei documenti scritti ma ci sia stata una trattativa verbale.
che posso dire è che, da quanto emerge da cose ormai pubbliche, il cosiddetto papello sarebbe stato uno di primi passi della trattativa. Sarebbe stato scritto da Riina, ma è verosimile e plausibile che la trattativa sia proseguita a prescindere da quel “papello” e che dopo non ci siano stati più dei documenti scritti ma ci sia stata una trattativa verbale.
In una sua inchiesta sui “Sistemi criminali”, poi archiviata, lei metteva in relazione alcune dinamiche interne a Cosa nostra e la politica italiana, con altre internazionali legate alla destra eversiva, ma anche a progetti secessionisti nel sud Italia. Quanto è attuale quell’inchiesta oggi alla luce di quelle dichiarazioni?
Anche qui ho difficoltà a parlare di indagini di cui mi sono occupato in passato. Ma ci sono cose che ho già detto nella requisitoria di primo grado del processo dell’ Utri e in altre occasioni. Quello che emergeva, fra le altre cose da quell’inchiesta, era che in questa trattativa, ad un certo momento, il progetto di tipo separatista coltivato da Cosa nostra nella fase storica che va dal 1991 al ’92 fosse stato utilizzato come una sorta di minaccia per fare accettare la trattativa. Come a dire, per intenderci, Cosa nostra ad un certo punto pone la questione così: siamo disposti a rinunciare al progetto e al Golpe se tu Stato vieni a trattare con noi.
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