Ecomafie, non solo Napoli e Palermo
Navi vecchie, carrette del mare, stipate all’inverosimile di rifiuti tossici. Comprese diverse tonnellate di polveri di marmo, capaci di agevolare l’inabissamento. Uno smaltimento sbrigativo già utilizzato dalla fine degli anni Ottanta, ritornato prepotentemente agli onori della cronaca con il rinvenimento a Cetraro, in Calabria di una nave carica di rifiuti radioattivi. E oggi mentre ad Amantea una manifestazione nazionale chiedeva giustizia e verità sulle “navi a perdere”, a Roma un gruppo di lavoro ha voluto focalizzare sul problema, descrivendone origine e pratiche e mettendone in risalto gli aspetti critici. Primo fra tutti quello di capire che ruolo giocano nello smaltimento le organizzazioni mafiose. Pensare all’enorme introito che le mafie guadagnano dal traffico di rifiuti non rende infatti la complessità degli interessi che girano intorno a questo mondo.
«La ‘ndrangheta è un service, l’ultimo anello della catena» sottolinea Francesco Neri, procuratore reggino da anni attivo nella lotta alle ecomafie. Se è infatti notorio che da vent’anni la ‘ndrangheta gestisce smistamenti illeciti di rifiuti («e già nel ’93 è attiva al nord Italia» aggiunge il pm) è altrettanto certo che si occupa solamente della parte finale, ovvero l’occultamento. Non è certo alla base della produzione dei rifiuti stessi, tanto meno di quelli atomici. Sul nucleare, puntualizza Neri, esiste una «mancata democrazia», che comporta un rapporto incontrollato con il tema dei rifiuti nucleari, amplificato dall’impossibilità di accedere a una contabilità nucleare italiana, che permetta ai più di essere informati e attivi, relegando a pochi eletti la «cultura del nucleare». Gli stessi che sono alla base della produzione dei rifiuti, sia nucleari che tossici, e che solo in una seconda fase si affidano alla manovalanza criminale per completare l’opera di occultamento, contaminando acque e terreni. Un chiaro atto di accusa che chiarifica come il business delle ecomafie, soprattutto se sono in ballo scorie atomiche, veda i proventi entrare nelle tasche delle mafie ma abbia a “monte” i governi e chi in genere produce determinati rifiuti.
Parlare di ecomafia in Italia significa tuttavia intraprendere una strada dissestata: innanzitutto per la mancanza legislativa, un vero e proprio vuoto, che non permette di isolare un vero e proprio reato di “ecomafie” e, in seconda battuta, le gravi carenze strutturali e finanziare che non garantiscono pronta e risoluta azione investigativa. Spontanea una provocazione: nel momento in cui si scopriranno dei traffici, degli smistamenti illeciti, quali saranno i metodi penali per punirli? Domanda tanto pertinente quanto difficile da approcciare. Secondo il pm Neri sarebbe utile una revisione del 416 bis con aggravante di reato ecomafioso: al momento qualsiasi ipotesi accusatoria viene facilmente smontata, non nel merito, ma proprio sul piano legale, date le poche risorse giuridiche che aiutino i magistrati nel perseguire determinate condotte.
La proposta da seguire arriva dal dibattito,;una raccolta firme che proponga una legge di iniziativa popolare che inserisca finalmente nel codice penale il reato di ecomafia. Un passo fondamentale come l’accorato appello ai governi si rendersi attivi nel monitoraggio territoriale e marino di quelle zone ad alta densità di traffici. Che non coinvolgono solo l’Italia, come ricorda Luciano Scalettari, giornalista di Famigli Cristiana, da anni attivo nel portare luce sul caso Ilaria Alpi, uccisa col suo operatore Miran Hrovatin proprio mentre indagava sul traffico di rifiuti tra Italia e Somalia. Vista la scarsa attenzione giuridica riservata al tema, interessante è parso il coordinamento di magistrati avviato da anni in America Latina, testimoniato dal procuratore argentino Gomez. Il fiscal sudamericano si è detto molto colpito del vuoto giuridico italiano e ha auspicato un risoluto approccio bipartisan per ovviare a questa mancanza. Ponendo un accento fondamentale sulla distinzione tra pericolo e danno ambientale: serve una legge che punisca il primo per non giungere al secondo. Un passo che l’assemblea tutta auspica anche in ottemperanza della decisione quadro della Comunità Europea che prevede questo adeguamento legislativo entro il 2010. E che l’Italia deve dimostrare al più presto di volere recepire.
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