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Cultura e mafie

Di Giulia Cavallini il . Atti e documenti

Non basta la buona motivazione di partenza: se un prodotto culturale,come fiction, libri,film hanno la conseguenza  di generare nelle masse non un’azione educativa o promotrice di consapevolezza di  una realtà come la criminalità organizzata ma di fomentare la mitizzazione del “cattivo”, quello su cui dobbiamo lavorare sono i “segni dell’impatto” che questi prodotti hanno sull’audience. È questo uno dei cardini della discussione che più ha animato e visto confrontarsi i partecipanti del gruppo di lavoro.

La riflessione è stata stimolata da un’iniziale intervento in cui Antonio Ingroia  sottolineando  il rischio di una chiusura autoreferenziale ribadisce l’urgenza di  un confronto tra intellettuali e magistrati per evitare che cultura e società vengano vissuti come ambiti separati e non comunicanti. La magistratura non si deve limitare esclusivamente all’azione repressiva e le agenzie di produzione culturale devono impegnarsi nel non confezionamento di  rappresentazioni del reale che siano funzionali alla sola logica estetica e commerciale ma che si carichino della responsabilità dell’impatto che avranno sul pubblico. Gran parte del sapere del cittadino comune è formata dall’immagine televisiva.

 La mafia crea consenso attorno a sé non solo attraveso forme più o meno coatte di scambio di favori e benefici, ma  circondando i propri personaggi di un’aura mitica, a volte rafforzati inconsapevolmente da un apporto mediatico che racconta solo una facciata della realtà non  affrontando sufficientemente gli anfratti, degli affari e degli intrighi meno visibili nel tessuto sociale quotidiano. Compito di chi affronta tali tematiche è di “rappresentare il non rappresentato e mettere in scena il retroscena”.

Il dibattito ha visto  protagonista in questo contesto il discusso film “il Capo dei Capi” esempio calzante di un prodotto ben riuscito nella sua forma artistica e cinematografica ma che ha visto nella ricezione del pubblico controverse manifestazioni,in particolare quelle scaturite dalla visione nella stessa popolazione rappresentata.  In risposta a tale intervento , il regista Enzo Monteleone, ha ribadito la non volontà di mitizzazione da parte di chi era coinvolto nella realizzazione del film, la cui sceneggiatura è stata basata su testi di giornalismo d’inchiesta e con la supervisione di importanti membri dell’antimafia, come Claudio Fava; Monteleone sottolinea  che la responsabilità dell’effetto mediatico non è solo a monte ma di fondamentale  importanza è il tessuto sociale con cui il prodotto si confronta.  Rischio ulteriore è infatti anche quello di rimanere paralizzati per paura di un eventuale risposta  del pubblico non coincidente con lì intento iniziale che ha motivato lo sviluppo dell’opera. 

Il dibattito ha visto coinvolte diverse realtà di produzione di cultura audiovisiva e di promozione di valori di una politica della legalità. “A volte manca perfino la buona intenzione iniziale” specifica Maffucci che, concentrandosi in particolare sullo strumento televisivo ha posto l’attenzione sul fatto che oggi prevale  la logica del consenso dei numeri rispetto a una scelta di professionalità  e alla ricerca di un messaggio etico. Il pm Marino porta l esempio del lo spaccato del tessuto sociale napoletano  in cui la camorra non è solo un sistema criminale ma uno stile e un modello di vita, che catalizza attorno a sé un gran numero di risorse umane: a Napoli non esiste una frattura netta tra mafiosi e anti mafiosi, ma è percorsa da tutta quella zona grigia che inevitabilmente interagisce e si fonde con questo modello culturale, che invade tutti i livelli della struttura sociale.

Anche un testo innovativo e dirompente come quello di Saviano, insieme al film che ne è stato tratto, scritto su fatti reali e inchieste giudiziarie, deve fare i conti con una cultura che non riesce ad uscire da alcune secche e che affonda nel “brodo dell’illegalità”, in cui prosperano non solo la camorra, ma anche le istituzioni e la società civile. Saviano ha comunque il grande merito di essersi inventato un linguaggio, che non è quello né della cronaca giudiziaria né quello della narrazione fantastica, e di aver fatto così conoscere una realtà che prima era ambito riservatoa a giudici ed esperti del settore”.

Barbagallo mostra soprattutto come il problema non sia tanto del singolo prodotto quanto dello stesso impianto comunicativo con cui questo viene veicolato. La complessità della realtà che si viene a mostrare viene infatti appiattita e banalizzato nel canale televisivo che tende alla semplificazione dei propri contenuti, quando invece ciò che viene rappresentato dovrebbe essere accompagnato e contestualizzato per sopperire alla vera e propria analfabetizzazione comunicativa che dilaga nei palinsesti televisivi. In queste condizioni, diventano quasi piu importante le modalità d’impatto comunicativo del prodotto stesso.

Complesso è anche il confronto diretto con la realtà, poiché anche nella rappresentazione dei fatti e dei personaggi coinvolti, come fa notare Savatteri, ci si riferisce sempre alle rappresentazioni già realizzate e all’immaginario che queste suscitano. Per essere un’organizzazione criminale non basta la violenza, serve un’ideologia, una narrazione che la mafia fa di sé stessa.   C’è un’osmosi fortissima tra l’immaginario della mafia stessa e l’immaginario dei prodotti già presenti sul mercato. Lo stesso film cambia se lo si vede a Treviso o a Palermo, proprio perchè c’è già un orizzonte di fondo che va a influenzare la percezione del prodotto.  No solo il cinema o la televisione contribuiscono alla formazione di un orizoonte culturale, ma anche una forma di comunicazione antica come il teatro: Provocatorio e innovativo quello proposto da Giulio Cavalli, attore e regista teatrale lodigiano sotto scorta per aver ridicolizzato la mafia nei suoi spettacoli. Interessante è il suo ben riuscito tentativo di intoccare gli intoccabili nelle loro debolezze umane, smitizzando l’onore del mafioso, maschera di una metastasi della sua paura, facendo sì che “i popolo rida del re”.  C’è infatti un aspetto tattile fortissimo in teatro, una comunicazione di pancia, un coinvolgimento che instaura un contatto tra pubblico e attori da non sottovalutare sotto il punto di vista della informazione e della formazione degli spettatori coinvolti. Cardine della sua ricerca di teatro civile impegnato nella promozione dei valori della legalità è quello non di fare uno spettacolo “sulla mafia, ma contro la mafia”. 

La giornata ha visto personalmente coinvolte molte realtà dal pubblico interlocutore che hanno sentito l’urgenza di rivedere e discutere il linguaggio comunicativo con cui quotidianamente arte e pubblico si misurano. La fitta rete di relazioni economiche politiche sociali che legano e rendono  interdipendenti tutti gli strati della criminalità organizzata internazionale non può essere sottovalutata neppure quando si tratta  dell’impegno nella ricerca creativa di nuovi linguaggi di avvicinamento della società alla presa di coscienza  della realtà contemporanea globale.

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