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Immigrazione e nuove forme di sfruttamento

Di Rosario Cauchi il . Sicilia

“Il mio nome è N.V. ho venticinque anni, sono natio di Dragalina, un piccolo comune di circa ottomila abitanti, situato nel distretto di Calarasi in Romania; giunsi in Italia quattro anni fa grazie ad un visto turistico, dapprima venni ospitato presso Comiso da un mio parente, già in Italia come lavoratore agricolo, e successivamente, a seguito della scadenza del visto, mi spostai a Gela, ove vi era notevole richiesta di manodopera per la coltivazione dei campi”.

Inizia con queste parole l’incontro con uno dei tanti lavoratori originari della Romania presenti attualmente sul territorio gelese: tutte le loro storie sembrano assomigliarsi, si differenziano solo per qualche sfumatura, ma di certo convergono sui punti del bisogno economico e delle difficoltà patite in patria, cause scatenanti delle loro partenze verso altri paesi europei (Italia, Francia, Germania, Spagna).   

N.V. (vengono indicate solo le iniziali per motivi di cautela) vuole raccontare interamente la sua esperienza, intrisa di patimenti e rimpianti.         L’arrivo a Gela e la repentina chiamata da parte di un piccolo imprenditore agricolo locale lo fecero sperare di poter acquisire una certa tranquillità economica, assente in patria per sé e per la sua famiglia.  Il suo principale obiettivo, fin dall’origine, era infatti quello di provvedere al mantenimento del padre e della madre rimasti a Dragalina, e con la parte restante del futuro stipendio cercare di costruirsi una nuova vita all’interno di una nazione diversa ma al contempo affascinante.        

L’occasione “propizia” si concretizzò a seguito dell’intercessione di alcuni connazionali, i quali, conoscendo la sua natura di grande faticatore, lo misero in contatto con un imprenditore locale (del quale N.V. non intende comunicare il nome) alla ricerca di manodopera da utilizzare presso i terreni della propria azienda. La prima impressione del giovane lavoratore fu tutto sommato positiva: il nuovo datore di lavoro gli proponeva un regolare contratto oltre alla possibilità di usufruire, insieme ad altri, di una piccola villetta, attigua al luogo di lavoro, nella quale vivere durante i periodi lavorativi.    

L’attività da svolgere, consistente prevalentemente nella raccolta di carciofi, era molto impegnativa, non solo da un punto di vista fisico (i turni diventavano sempre più frequenti) ma anche a livello mentale (a causa di alcuni collaboratori dell’azienda sempre solerti nel sollecitare un maggiore impegno). Il peggio, però, doveva ancora manifestarsi in tutta la sua drammaticità: a conclusione del primo periodo di attività, infatti, N.V. comprese ben presto che il contratto promessogli in realtà non era mai esistito, ed in assenza di questo svaniva anche il sogno del permesso di soggiorno; la paga pattuita originariamente venne drasticamente ridotta, dietro la minaccia di una denuncia alle forze dell’ordine, per attestarsi a 15 euro per giornata.  

 Nonostante ciò egli decise di accettare tali condizioni vessatorie, proseguendo il suo rapporto con l’azienda, per la quale, almeno formalmente, non esisteva.           Il giovane bracciante migrante, dopo alcuni mesi caratterizzati da un lavoro quotidiano e sfiancante, venne trasferito, insieme ad altri compagni, presso un altro appezzamento di proprietà dell’azienda, ubicato nella zona di contrada Mautana. Le condizioni lavorative impostigli peggiorarono ulteriormente, aggravate da una torrida stagione estiva: lui e gli altri lavoratori dovevano provvedere alla raccolta dei pomodori, all’interno di un vasto terreno, servendosi esclusivamente della propria forza fisica, sotto  l’attenta sorveglianza dei soliti e zelanti responsabili dell’azienda.

Si trattava di un’attività continuativa, generatrice di significative conseguenze fisiche, difficilmente sanabili, a causa dell’assenza di idonee strutture ove potersi rifocillare e riposare; a differenza dei campi nei quali era stata svolta la raccolta dei carciofi, il nuovo luogo di lavoro offriva esclusivamente una vecchia casa rurale, priva di servizi igienici e di corrente elettrica, da dividere tra più individui, costretti, al fine di poter esplicare i minimi  adempimenti igienici (legati anche alla cura del proprio corpo), ad utilizzare alcuni pozzi artificiali per la raccolta dell’acqua piovana.

N.V. ricorda che in quello stesso periodo, per ragioni derivanti dalle alte temperature e dai ritmi ossessivi di lavoro, almeno tre suoi compagni subirono gravi ripercussioni fisiche, sottoposte all’attenzione di un uomo (molto probabilmente un medico compiacente), il quale li invitò ad evitare un’eccessiva esposizione al sole, senza minimamente interessarsi alle condizioni lavorative alle quali questi dovevano soggiacere.           La misera paga rimaneva invariata, costituendo fonte di evidente insofferenza da parte dei braccianti agricoli nordafricani, costretti a rinunciare a preziose giornate lavorative a causa di richieste salariali “eccessive” (30-35 euro per giornata) rispetto a quelle (in verità imposte) dei lavoratori romeni.

Il giovane, stufo di subire continue imposizioni, al termine del periodo dedicato alla raccolta del pomodoro, decise di abbandonare quei luoghi, ma anche una condizione di semi-schiavitù, che non gli fu possibile vincere, anche a causa dell’assenza di entità in grado di informarlo correttamente dei propri diritti e degli obblighi imposti al datore di lavoro (il sindacato è praticamente assente all’interno di una dimensione quasi medievale rispetto alla gestione dei rapporti di lavoro).

Del resto tutto ciò non deve stupire: la crisi economica globale, estesa anche al settore agricolo, ha prodotto tutti i suoi preoccupanti sintomi, determinando una sorta di placida giustificazione nei confronti di imprenditori (specialmente agricoli) pronti, nel perseguire l’obiettivo della riduzione dei costi, ad usufruire di manodopera (ormai prevalentemente straniera) a bassissimo costo e priva di ogni basilare diritto. Un bracciante agricolo italiano, nella maggior parte dei casi, consegue una paga base di circa 50 euro per giornata, contro i 30 euro di un lavoratore nordafricano ed i 10-15 euro di un lavoratore dell’est Europa; le recenti statistiche pubblicate ad opera dall’Inps parlano chiaro, individuando un picco, pari all’82%, di aziende del settore privato risultate non in regola durante specifici controlli.    

Lo stesso ex commissario della Polizia di Stato di Gela, Giovanni Giudice, circa due anni addietro, rilasciando alcune dichiarazioni ad organi di stampa, sollevò chiaramente il problema, citando diversi casi di sfruttamento di braccianti polacchi e romeni da parte di imprenditori locali, fino ad ammettere episodi di violenza sessuale ai danni delle lavoratrici  straniere. 

Quando si elogiano le innumerevoli conquiste ottenute dai lavoratori, grazie al prezioso  impegno profuso dalle organizzazioni sindacali, si dovrebbero, inoltre, e con maggior vigore, citare le attuali lacune, produttrici di sofferenze e privazioni ingiustificabili. N.V., dopo una simile esperienza, non isolata ma comune a molti lavoratori migranti, costretti al silenzio per timore di perdere l’unica fonte di sostentamento, ha deciso di lasciare la Sicilia: la sua prossima destinazione non sarà però la natia Romania, priva di qualsiasi opportunità lavorativa, bensì l’Italia centrale, permanendo, al contempo, in una condizione di assoluta invisibilità. 

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