Le nuove frontiere del narcotraffico
Prosegue l’inchiesta dello storico – giornalista Carlo Ruta sull’impatto della recessione per gli affari mafiosi. Questa seconda puntata prosegue l’analisi intrapresa intrapresa su “Recessione e mafie” sino al narcotraffico con numeri, storie, racconti che fotografano la situazione internazionale e del nostro Paese in questo momento. In tutti i continentii – scrive Ruta – negli ultimi decenni le economie di
origine illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste,
correlandosi alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È
andato stabilizzandosi per ciò stesso il raccordo delle mafie con i
maggiori business, dalla speculazione immobiliare all’industria dei
metalli, dalle energie naturali e rinnovabili all’acqua. Le classifiche
di Forbes, che hanno visto scalare un gran numero di magnati
dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che autentici gangster,
ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire tuttavia scenari
nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti nelle economie
clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di armi, le tratte
degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero essere non
da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali traffici
su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai governi.
A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni sovranazionali,
a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni novanta ha
sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di sostanze
stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù
e Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in
cambio di aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di
crisi? I dati che vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni,
a partire appunto dal narcotraffico.
I ritmi di modernizzazione,
più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito per
incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici.
Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con
snodi particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano
le cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare
un capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti
i paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire
a vari livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per
poter comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione
del medesimo. Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto
concordanti con i numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc,
Ufficio dell’Onu che sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono
significativi.
Nel Sud America, capoluogo
strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita.
Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie
prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni
di persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua
però a progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo
le Ande vanno estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi.
La produzione di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le
regioni aumenta infine il consumo di narcotici, mentre migliorano le
facoltà di produzione di droghe sintetiche. È quanto emerge da un
rapporto pubblicato nel marzo 2009 dalla Latin American Commission on
Drugs and Democracy, diretta da Fernando Cardoso, già presidente del
Brasile, César Gaviria, già presidente della Colombia, Ernesto Zedillo,
già presidente del Messico. È quanto affiora altresì da ricerche
specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico dell’associazione Libera,
un team di economisti delle università di Bologna e Trento è intervenuto
sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30 mila dati, oggettivi,
tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha concluso che nel 2008
sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500 tonnellate di cocaina,
a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.
A dare conto delle cose
sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute
a tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla
Colombia grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande,
spesso con vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi
inauditi, malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza
Lula. In Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata
registrata nel 2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di
droga, mentre in Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi,
nello stesso anno, è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore
cioè alla media mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente
dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha
potuto dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più
della crisi economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc,
Antonio Maria Costa, tali soprassalti di violenza proverebbero che il
mercato della cocaina nei paesi latino-americani va contraendosi. In
realtà la storia delle mafie, dalla Chicago anni trenta alla Palermo
anni settanta, dalla Colombia degli anni ottanta alla Russia degli anni
Duemila, indica che gli scoppi di tensione, pur originati da contesti
di crisi e di rottura, recano spesso logiche e significati del tutto
differenti, correlandosi con poste in gioco che, proprio in determinati
frangenti, anziché ridursi, si fanno più attraenti e remunerative.
Alla luce dei fatti,
la situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene
conto delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi
in tante sedi, pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government
Accountability Office la guerra ai narcos sudamericani viene presentata
come persa, con l’avallo del vice presidente degli Usa Joe Biden,
a fronte dei miliardi di dollari che le precedenti amministrazioni hanno
erogato ai paesi produttori. L’Office National Drug Control Policy
suggerisce quindi svolte radicali, in senso strategico, a dispetto dei
freni che permangono negli States. Il convincimento di una partita
persa, che un recente sondaggio ha visto condiviso dal 71 per cento
degli statunitensi, si fa largo altresì in America Latina, dove con
forza sempre maggiore viene reclamata la sostituzione del paradigma,
repressivo dalla produzione al consumo, che finora ha ispirato la lotta
al narcotraffico. La Commissione di Cardoso, Gaveria e Zedillo ne indica
uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di droghe come problema
di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi. E su tale linea
convergono associazioni e altri alti esponenti della politica, come
l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più espressamente,
di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non mancano
del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato colombiano,
con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre insiste
nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo
di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche,
per contrastarne il traffico illegale.
In definitiva, il business
delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con
conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non
si tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi
in ogni altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo
a imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde,
di capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri
a dispetto della war on drugs.
La recessione in Asia
va esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda,
interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni,
stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est,
dal Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo
che ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni
in più di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi
hanno fatto argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù
pure dei cambi monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con
una vistosa riduzione dei ritmi di crescita. Eppure le economie della
droga, lungo tutto il continente, stanno mostrando di non temere la
crisi. Come in America Latina, contano anzitutto sull’abbondanza del
prodotto base: nel caso, sulle coltivazioni di papaveri da oppio che
ricoprono l’Afghanistan, la Birmania, il Laos, la Thailandia, il Nepal.
L’Onu ha conseguito beninteso dei risultati, soprattutto in Laos e
in Birmania, dove nel 2008 sono andate distrutte piantagioni per migliaia
di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben lontani da annunciare svolte,
tanto più se si considera che sono gli stati stessi, interlocutori
delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il tornaconto, diretto
o indiretto, che recano nel business, dal traffico in senso stretto
al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in Birmania
sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano comunque
di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su scala
continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle medesime.
Non è poco, evidentemente.
Le amfetamine e le metamfetamine
contano oggi su una produzione distribuita in tutti i continenti. E
ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode edonistiche,
dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal disagio, dal
deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici ne sono
divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui
si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione
del prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di
consumo nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri
un’area di forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata
ai gruppi che trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani,
cinesi. Lungo tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero
territorio del Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono
prodotte, in quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di
una variante detta ketamina, destinate in buona misura all’estero.
Quale può esserne la logica, in una terra che abbonda fino all’inverosimile
di papaveri da oppio? Di certo, non è la prova che le droghe tradizionali
stiano entrando in crisi, perché il consumo di oppiacei, di eroina
in particolare, nei primi mercati al mondo, l’Europa e il Nord America,
proprio non demorde. Potrebbe essere invece l’esito di una studiata
diversificazione, legata a un orizzonte di domanda che va ampliandosi,
con esiti sempre maggiori nei paesi in via di sviluppo, in favore delle
droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni caso che le economie
degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono essere mosse
da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni asiatiche le
cose vanno appunto in tale direzione.
Un caso emblematico è
quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati
vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati
ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per
gli stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il
controllo ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì
che i grandi deserti della penisola divenissero corridoi di transito
degli oppiacei da Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano
l’Afghanistan alla Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche
ex sovietiche dell’Asia. Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia
in modo dirompente. L’Arabia Saudita risulta essere uno dei paesi
in cui più vengono prodotti e si consumano droghe sintetiche, soprattutto
ecstasy e amfetamine del tipo captagon. Prova ne è che nel 2007 ne
sono stati sequestrati quantitativi record, pari a un terzo di quelli
scoperti globalmente, a fronte dell’1 per cento registrato lungo il
perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma in una misura discreta
pure le tradizionali, dal momento che le sfere di produzione e di distribuzione
di massima coincidono, stanno intaccando insomma le frontiere più solide
dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che vanno emergendo, c’è motivo
di ritenere che la recessione, pur trattandosi di aree ben compensate
dalle economie del petrolio, stia alimentando tale trend.
Vanno giocandosi in sostanza
due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato stabile,
che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto più
nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto.
Il mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari
all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe,
si manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce,
in grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili.
Le mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore
delle aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione
e innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui
la coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca
un mondo strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano
appunto un continuum, un’offerta articolata, convergono, come
si è detto, interessi molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani,
thailandesi. È decisiva comunque l’influenza delle Triadi cinesi,
egemonizzate dalle compagini di Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo
gli accordi che le medesime hanno concluso con Khun Sha, che nel Triangolo
d’Oro fa ormai da decenni le regole dell’oppio, forte di un esercito
personale di 8 mila uomini. Il quadro degli interessi, per quanto diviso
sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se i potentati militari
del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State Army birmano,
usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le linee
dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi territoriali,
sono in grado di animare scenari ben più ampi.
Non è possibile
definire beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione
in questo particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici
da Oriente appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con
guadagni aggiuntivi per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per
le mafie potenti che hanno scortato i transiti dell’oppio: da quella
russa, che con il narcotraffico ha costruito imperi, oggi stimati e
quotati nelle maggiori Borse internazionali, a quella turca, che si
potrebbe candidare a nuovi ruoli. È il caso di soffermarsi su questo
punto. I boss turchi hanno recato sempre una posizione di prim’ordine
lungo le vie dell’eroina che dal sud est asiatico puntano in Europa,
attraverso i Balcani. Forti della loro posizione mediana, hanno stretto
relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno stabilito basi
in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche dell’Asia
Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni dell’Asia
sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo Persico,
mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il Mediterraneo,
che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di Ankara
in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto
di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come,
probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è
possibile rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle
regioni, penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono
registrate mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto,
facoltà logistiche possano competere con quelle turche.
In definitiva, non sembra
che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista,
sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno
in affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni
di conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro
cicliche in determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe
è invece la capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale
inimicizia fra le Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie
asiatiche a darne esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una
integrazione sufficiente. Va preso atto d’altronde che i signori della
droga si sono dimostrati previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi,
diversificando, delocalizzando, puntando alla conquista di nuove aree,
di produzione e di consumo, stabilizzando infine i mercati fondamentali,
con ogni sorta d’incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione
scenografica con la conquista, pianificata dai sudamericani e non solo,
di un intero continente, che era rimasto a lungo marginale nei traffico
di narcotici: l’Africa.
Fonte: domani.arcoiris.tv
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