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La lettera di Piera Aiello

Di Piera Aiello il . Sicilia

Io sottoscritta Piera Aiello nata a Partanna il 02-07-1967 Testimone
di giustizia dal 1991 e residente in località protetta, scrivo e intendo
rendere pubblico questo documento dopo 18 anni di non vita, grazie ad
uomini di Stato preposti a garantire la mia sicurezza – come quella
di altri Testimoni di Giustizia – e che invece si sono dimostrati ASSENTI
e peggio INDIFFERENTI alle nostre condizioni di vita ed alle condizioni
di pericolo cui eravamo esposti.

Sono persone che hanno dimostrato purtroppo un assoluto senso di superficialità
per quanto riguarda la questione delicatissima dei Testimoni di Giustizia,
invece di dimostrare quella attenzione e quell’attento accompagnamento
dei “Testimoni di Giustizia” che lo Stato ha progressivamente
imparato ad assumere come compito e tradurre nello spirito e nel dettato
delle specifiche leggi promulgate, ma di cui costoro sembra non abbiano
mai avuto conoscenza o comprensione.

Pertanto ho deciso di elencare e rendere pubblica questa situazione
attraverso la narrazione di una piccolissima parte della mia vicenda
umana che attesta il poco tatto con cui io, e sicuramente molti altri
Testimoni di giustizia come me, veniamo trattati fino ad oggi da funzionari
e rappresentanti istituzionali che avrebbero invece il compito di essere
delicati e quantomeno premurosi e solerti nell’affrontare i nostri problemi,
e che invece dimostrano la volontà di lasciare irrisolte le questioni,
spesso vitali, poste dal Testimone, o di costruire percorsi limpidi
per una fuoriuscita dal Programma di Protezione ed un ritorno a nuova
vita in modo dignitoso, dopo il lungo periodo di tribolazioni e peregrinazioni
nelle aule dei vari tribunali.

La mia storia è forse risaputa, in quanto ampiamente riportata dai
mass media, ma sento necessario – per dare un ordine ed una ragione
comprensibile alla conclusione verso cui sono orientata – raccontarne
qualche breve tratto ben sapendo che non è possibile rappresentare
in poco spazio tutta la drammaticità quotidiana della vicenda che ho
scelto di vivere per contrastare la criminalità mafiosa, vicenda che
è stata aggravata proprio da una inattesa insensibilità istituzionale
da parte di chi avrebbe dovuto accompagnarmi in questa scelta di vita
dura e difficile.

Divenni Testimone di Giustizia nel 1991 a seguito di avvenimenti criminali
rivelati in deposizioni rese davanti al Giudice Paolo Borsellino ed
allo stuolo di Sostituti Procuratori che con lui collaboravano. Venni
messa sotto regime di protezione immediatamente. Subito dopo la mia
decisione, mia cognata Rita Atria volle condividere la medesima scelta
di Testimone di Giustizia. 
Quando ho preso la decisione di testimoniare vigeva l’istituto dell’Alto
Commissario, solo successivamente vi sarebbe stato l’avvento del Servizio
Centrale di Protezione. Già a quei tempi, in regime di Alto Commissario, si registrava una
profonda confusione di compiti, ruoli e modalità di intervento, in
quanto i funzionari non sapevano bene come gestire il fenomeno dei Testimoni
di Giustizia e facevano molta fatica a distinguere tra questi ultimi
ed i collaboratori di Giustizia, cioè coloro che – a differenza dei
Testimoni, i quali non avevano mai colluso con i crimini ed i criminali
di cui riferivano vicende e comportamenti – si erano dissociati per
le più varie ragioni dai crimini e dai criminali con cui avevano precedentemente
collaborato direttamente ed attivamente.

L’unica cosa che posso dire con certezza è che quando era in vita Paolo
Borsellino le varie mancanze e difficoltà venivano sempre risolte tempestivamente
e grazie a suoi diretti interventi, mentre dopo la sua morte le cose
precipitarono. Già dopo pochi giorni dall’omicidio del Giudice, si verificò infatti
una vicenda sconcertante. Vennero cioè a trovarci (me e mia cognata
Rita) due funzionari che ci dissero: “Dalla morte del Giudice,
molti collaboratori si stanno tirando indietro. Voi cosa volete fare?”.
Allora ci chiamavamo tutti collaboratori, senza distinzione, perché
non c’era ancora una legge che differenziasse i due status, ma non credevo
che per differenziare un criminale da una persona onesta nella coscienza
dei funzionari occorresse un testo di legge, credevo piuttosto che bastasse
solo la Verità delle cose. (La legge arriva, ma solo nel febbraio del
2001).

Quella domanda mi ha fatto capire che non avrei più avuto il conforto
dello Stato rappresentato da Paolo Borsellino, ma avrei bensì convissuto
con l’improvvisazione. Rimasi allibita, risposi con l’unica cosa che
potevo dire, e cioè che “se prima avevo un motivo per andare avanti,
adesso ne avevo mille”. Mia cognata Rita non rispose. Lei era convinta
che la mafia l’avrebbe trovata e uccisa. Aveva ragione Rita: con la
morte di Paolo Borsellino era finito tutto, non saremmo più state protette
allo stesso modo, e sbagliano coloro che citano Rita solo come vittima
della mafia. Rita è vittima dell’indifferenza di funzionari incapaci
a capire la differenza tra una pratica ed un essere umano. Come dimenticare
l’intervista di Ambra Somaschini (29 luglio 1992 su repubblica) all’allora
prefetto di Roma. Alla domanda: “Rita Atria soffriva di depressioni
e il settimo piano di quel palazzo anonimo, la solitudine, forse ne
hanno provocate altre…”, il prefetto rispose: “Pagavamo
950 mila lire al mese per quell’appartamento. Abbiamo fatto il possibile”.
Pagavano 950 mila lire da meno di una settimana (perché Rita ebbe quella
casa dopo la morte di Paolo Borsellino), ma non è questo il problema:
la risposta doveva essere diversa perché la giornalista parlava di
“essere accanto umanamente “, di un supporto psicologico,
per far sentire che dopo Paolo Borsellino lo Stato c’era, e invece …
“Pagavamo 950 mila lire”. Umanità misurata col metro dei
soldi.

Come dimenticare poi le differenze che venivano fatte tra me e Rita:
a me avevano dato un alloggio bellissimo, con tutti i comfort, ma a
Rita diedero un appartamentino lugubre. Ci davano un contributo mensile
talmente irrisorio che a stento riuscivamo a sbarcare il lunario. Ritengo importante sottolineare questo aspetto per far capire che noi
Testimoni di Giustizia non veniamo trattati tutti alla stessa stregua.
Ci sono testimoni di seri “A” e testimoni di serie “Z”. Dopo la morte di Rita, chiesi di trasferirmi in un convento, stanca
di vedere quei funzionari con cui dovevo relazionarmi e che pretendevano
di “gestirmi” a modo loro senza alcuna mia partecipazione
al disegno ed alla costruzione del mio futuro. Avrei voluto restare
fuori dal mondo, ma dopo un paio di anni decisi che la vita monacale
non faceva per me, soprattutto per la presenza della mia bambina. Mia
figlia era ormai in età scolare, e dunque decisi di trovarmi un appartamento
in un qualche paese ed a mie spese mi trasferii nella mia “nuova
residenza”.

Chiesi ai funzionari preposti a dare soluzione ai problemi della mia
esistenza quotidiana di collaborare per iscrivere la mia bambina a scuola,
ma nulla mi venne risposto. Decisi di andare personalmente dal direttore
didattico del posto, sperando che fosse un onesto padre di famiglia
e non un delinquente. Trovai una persona di coraggio e carica di passione
civile: gli dissi chi ero, che non avevo documenti, ma rivendicavo che
mia figlia potesse godere del suo inalienabile diritto allo studio. E fu dunque solo grazie a me e a quel direttore, che mia figlia poté
entrare a scuola, sotto false generalità. Quando la bambina frequentava
ormai la terza elementare, durante un colloquio presso il Servizio Centrale
di Protezione (di fronte a testimoni) una funzionaria del servizio centrale
mi chiese quanti anni avesse mia figlia e se andasse a scuola. Le risposi
che mia figlia aveva otto anni e che frequentava la terza elementare
e che loro avrebbero dovuto saperlo senza chiedermelo!

Non solo il danno, dunque, ma anche la beffa di un ipocrita e tardivo
interessamento per una situazione che io avevo tempestivamente segnalato
e che era rimasta dormiente per oltre tre anni! Negli anni successivi, dopo aver conseguito due diplomi, sempre a mie
spese, e grazie all’aiuto di persone estranee a quegli uffici istituzionali,
chiesi di fuoriuscire economicamente dal programma: volevo tornare libera,
volevo lavorare, volevo tornare a vivere! 
Mi venne concesso quel “privilegio” dopo dure ed impari lotte,
perché nel frattempo non mi venivano attribuite le nuove generalità.
Quei documenti rappresentavano per me l’unica possibilità di costruire
il mio futuro e tuttavia mi venivano negati. Comunque ci riuscii grazie
anche all’intervento di persone che mi stimano e mi vogliono bene e
che mi hanno salvato la vita, perché la solitudine mi aveva spinto
alle stesse conclusioni di mia cognata Rita.

Venni “liquidata” con una cifra che considero irrisoria, ma
a me non importava. Anche se pochi, quei soldi mi consentivano di realizzarmi
nel lavoro, mi consentivano di ritornare a nuova vita. E poi c’erano
le nuove generalità che mi permettevano di andare a votare dopo 7 anni,
di non chiedere in prestito il codice fiscale di un’amica fidata, di
uscire e non aver paura di esibire il documento, di portare mia figlia
all’ospedale e di scegliere il medico e tutte quelle cose che fanno
di un essere umano un cittadino. 
Dopo la “capitalizzazione” (la chiamano così la liquidazione)
attorno a me è caduto il silenzio istituzionale più assoluto. Nessuno,
dico nessuno, si è mai chiesto come io abbia utilizzato tali soldi,
se ero riuscita a realizzarmi, nulla, neanche una telefonata per dire:
“signora va tutto bene? È viva?”. Il nulla. Eppure mi avevano
detto che c’era un funzionario del ministero del Lavoro che mi avrebbe
potuto aiutare nel reinserimento lavorativo.

Sapevo che in quegli uffici noi siamo pratiche, ne avevo avuto ampiamente
la prova e la stessa storia continuava a ripetersi. Non potevo neppure
telefonare per parlare con i funzionari. Addirittura una volta venni
insultata perché telefonando avevo chiesto di parlare con il direttore
del Servizio Centrale. Mi rispose un funzionario, ammonendomi di non
chiamare più! 
Insomma quello Stato che mi era stato proposto come la mia nuova famiglia
in realtà si è trasformato nella mia peggiore prigione, con relativi
aguzzini, forse per “gratitudine della mia attiva testimonianza
contro il crimine organizzato”. 
Ho anche prodotto tutta la documentazione prevista dalla Legge e necessaria
perché lo Stato acquistasse la mia casa in Sicilia e mi consentisse
di ottenere nella mia nuova residenza beni di “pari consistenza”
o comunque qualcosa di dignitoso che si potesse chiamare casa. Lo Stato
ha rifiutato di accogliere le mie richieste (offrendomi una cifra offensiva
e umiliante per una casa costruita con sacrificio e anni di immigrazione
in Venezuela di mio padre) e la vicenda si è risolta nella necessità
di avviare una azione giudiziaria con un ricorso davanti al TAR contro
quello Stato che mi doveva tutelare per promessa e per Legge! Ricorso
che ancora ad oggi deve essere discusso!

Avevo chiesto altre cose che mi spettano di diritto, che non vado qui
ad elencare (sempre disponibile a farlo con chiunque nutrisse dubbi
sulla mia onestà intellettuale), ma com’è sempre accaduto quando sono
andata negli uffici istituzionali, ho trovato apparente disponibilità
ed avvertito una “falsa” cortesia, ma nessuna volontà di
risposte concrete e tempestive. Così è stato ad esempio per una richiesta
fatta a febbraio 2009 e per la quale ancora oggi (settembre 2009) sono
in attesa di una qualsivoglia risposta, foss’anche un rifiuto. Non so
e non mi è dato sapere se sono state approvate le mie proposte e richieste.
Mi chiedo come sia possibile affidare oltre a simili persone la propria
vita! Mi chiedo come faccia una istituzione ad ignorare critiche pesanti
e denunce fondate contenute nella relazione sui Testimoni di Giustizia
della precedente commissione antimafia… Nella nuova commissione hanno
ritenuto il problema talmente superfluo o superato che hanno pensato
di non istituire una commissione sull’argomento. Non si sono posti neanche
il problema se le indicazioni contenute in quella relazione fossero
state in qualche modo portate avanti.

Ho avuto un grave problema di sicurezza determinato da un episodio oggi
oggetto di accertamento (nonostante tutto confido sempre sul fatto che
vinca il primato della Verità e della Giustizia su altri primati meno
nobili) che ha fatto saltare la mia copertura. Questo significa che
la mafia conosce il mio attuale nome e dove mi trovo. In seguito a quello che per me e per la mia famiglia è un vero e proprio
dramma, a maggio sono stata convocata in Prefettura, dove mi sono state
fatte promesse di videosorveglianza. Ho saputo da fonte certa che alcuni
dei funzionari del Servizio Centrale di Protezione sostengono che quei
dispositivi di videosorveglianza sarebbero stati già montati (per l’esattezza
l’affermazione è stata: “la signora è coperta da videosorveglianza”),
cosa assolutamente falsa se riferita alla mia personale situazione.
Dunque costoro parlano senza cognizione di causa di cose che non conoscono
o che preferiscono ignorare.

Da tutto questo la mia profonda inquietudine: persone e funzionari istituzionali
che dovrebbero occuparsi di una situazione di rischio e delle relative
azioni di garanzia della sicurezza, mettono invece a rischio deliberatamente
con la loro inefficienza le vite umane che sono state affidate all’esercizio
dei loro poteri. 
Questi signori nei recenti documenti che mi notificano scrivono che
sono solo “un’ex testimone” e che della mia sicurezza se ne
deve occupare la Prefettura della località segreta. Io posso serenamente
sostenere che anche questa è una affermazione falsa o comunque infondata,
perché io sono fuoriuscita sì dal programma, ma solo economicamente:
ogni qual volta mi devo recare in luoghi a rischio, sono ancora tenuta
a comunicarlo al NOP che lo notifica al Servizio Centrale di Protezione,
e di conseguenza debbo essere accompagnata da uomini di scorta. Presumo
dunque che ciò avvenga perché sono sempre e comunque una persona a
rischio di aggressione, quindi soggetta ad essere scortata.

Mentre la
mafia sanziona che i suoi nemici sono nemici per sempre, lo Stato di
Diritto afferma che i Suoi Testimoni divengono ad un tratto ex testimoni
e dunque possono essere lasciati in balìa della propria sorte, decisa
dai criminali denunciati. Ovviamente nessuno ti notifica che non sei
più a rischio e che la mafia (anche quella uscita di galera) ha dimenticato.
Nessuno si prende la responsabilità di dirlo apertamente, così magari
per aver la certezza che la mia copertura è saltata a causa di due
stolti uomini dello Stato forse vogliono il cadavere: “tutto è
da verificare”. Qualcuno è arrivato a dire che la mia condizione
di presidente di una associazione antimafia mi avrebbe esposta. Ovviamente
non hanno dimostrato come. Eppure era stato proprio un sottosegretario
a dirmi che la mia storia era talmente importante che bisognava che
io andassi nelle scuole. Io nelle scuole ci vado, ma da sola, e cioè
senza sponsor politici.

Adesso a distanza di diciotto anni da quella scelta che ha segnato la
mia vita e che non rinnego, dico basta. Ritorno in Sicilia, visto che
sono una ex testimone, ritorno a casa mia, dove nessuno può cacciarmi,
ritorno alla mia identità che nessuno ha diritto di cancellare. Ritorno
tra i ragazzi per rivendicare il diritto alla Vita. Non torno per morire
ma per lottare. 
Preferisco passare gli ultimi giorni della mia vita (per quanti essi
potranno essere) nella mia Sicilia, in mezzo ai mie affetti, che mi
sono stati strappati 18 anni fa. Ma desidero farlo rendendo pubbliche
le ragioni della mia decisione. 
Prendo tale decisione con serenità e con consapevolezza. Per proteggere
la mia nuova famiglia, per far sapere all’opinione pubblica l’inefficienza
di persone e funzionari istituzionali che hanno l’ardire di gestire
con assoluta incompetenza e totale disinteressamento situazioni delicatissime
che a dir poco sono sfuggite loro di mano.

Aggiungo inoltre che intendo che la difesa dei miei diritti è azione
imprescindibile per continuare ad andare nelle scuole e parlare della
cultura della testimonianza. Qualche anno fa ho ricevuto una lettera
da una bambina di 12 anni del mio paese: “tu vivi esiliata, Rita
Atria è morta, ci state chiedendo di diventare eroi?”. Rispondano
i funzionari dello Stato a questa domanda. Io ho deciso di dimostrare
alla mia Terra che dobbiamo pretendere protezione e allontanare i mafiosi
dalle città, e non i cittadini onesti. 
Per tali inadempienze, per porre fine alla mia prigionia, per porre
fine a vivere una vita non vita 
 
Chiedo

1. L’annullamento dello status di ex testimone di giustizia come da
notifiche del Servizio centrale di protezione in netta contraddizione
con l’art.16-ter della L 45/2001 che prevede che le misure di protezione
siano mantenute fino alla effettiva cessazione del rischio.  In tal senso se viene mantenuto lo status di ex testimone chiedo che
organi competenti mi notifichino lo scampato pericolo così come mi
hanno notificato il mio esilio. Ricordo che fino al mese di luglio c.a. mi sono recata in Sicilia con
tre uomini di scorta più due di supporto sul territorio, per un totale
di cinque uomini di scorta. Se fosse intervenuta la cessazione del rischio
evidentemente non avrei avuto bisogno di questi uomini. 
 
2. L’acquisizione dei miei beni. Anche in questo caso interviene l’art
16 ter della L 45/2001:  “se lo speciale programma di protezione include il definitivo trasferimento
in altra località, il testimone di giustizia ha diritto ad ottenere
l’acquisizione dei beni immobili dei quali è proprietario al patrimonio
dello Stato, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro a prezzo
di mercato”. 
 
3. La concessione del mutuo che avevo chiesto e che da mesi mi si dice
essermi stato concesso, mentre invece le mie pratiche rimbalzano tra
la banca e il ministero degli Interni in un palese stato di incomprensione.
Inutile dire che il mutuo l’avevo chiesto per uno stato di bisogno che
solo grazie ad interventi privati sto cercando di tamponare. Per lo
Stato sarei già caduta in miseria. 
 
4. Il diritto a vivere insieme alla mia famiglia in maniera dignitosa.

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Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

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