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Fiction, mafie e libertà d’informazione

Di Norma Ferrara il . Interviste e persone

Stava per terminare l’estate quando dalle pagine del Corsera tre magistrati in prima linea Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia (alla Procura di Palermo) e Raffaele Marino (Procura di Torre Annunziata) lanciavano l’allarme sul modo in cui veniva rappresentata la mafia nelle fiction televisive. Il dibattito sembrava essersi aperto ad un confronto fra registi, storici e magistrati ma fra accuse di mitizzazione da un lato e d ingerenza dall’altro, la discussione si è affievolita. Ne abbiamo parlato con Claudio Fava, giornalista e politico, figlio di Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia nel 1984 a Catania ma anche uno degli autori della fiction “Il Capo dei capi”.

Fiction che parlano di mafia e
rischiano di celebrare Cosa nostra. Lei autore della fiction che
racconta di Totò Riina e dei corleonesi, che ne pensa di questo
pericolo?


Ho il timore che Ingroia e gli altri magistrati non abbiano visto tutta la serie de il “Capo dei capi”, perchè altrimenti si sarebbero accorti che la storia racconta si di un Totò Riina, realmente figlio di un bracciante agricolo che decide di farsi strada nella vita attraverso la ferocia criminale anziché lavorare. Ma questo è solo uno dei fatti raccontati poi ce ne sono altri. Il Capo dei capi è, ad esempio, l’unica fiction televisiva ad avere narrato – facendo nomi e cognomi – gli autori dello smantellamento politico e giudiziario del pool antimafia, raccontando le sedute del Csm in cui si cominciò ad uccidere in vita Falcone e Borsellino e la rete di complicità politica che stava attorno ai due magistrati. Non solo, si parla anche di Lima, Andreotti e dei Salvo. In questo mi sembra che il giudizio di questi magistrati sia un po’ frettoloso, sommario e legato ad una lettura un po’ superficiale.

Le fiction raccontano verità scottanti ma lo fanno anche attraverso il racconto di personaggi mafiosi, come si evita il rischio di “mitizzare” questi ultimi agli occhi dei più giovani?

Il problema non è rappresentato dalle fiction che raccontano la mafia, ma dalla mafia. Non è la mitizzazione di oggi il problema ma il fatto che la mafia ha avuto una capacità di seduzione in questo Paese da decenni. Lo ha avuto spesso colmando difetti, lacune e povertà create dall’assenza delle istituzioni. Riina non è stato popolare fra i suoi perché lo racconta un film ma perché nella realtà ha costituito in Cosa nostra un contropotere fortemente radicato, capace (e lo dico anche per la storia che porto addosso) di raccogliere e mantenere il consenso. Questa non è responsabilità delle fiction ma del fatto che non abbiamo saputo articolare una risposta culturale nei confronti della mafia. Se vogliamo che perdano “fascino” i mafiosi ci vuole un lavoro di profondità culturale.

C’è un modo diverso per raccontare questi personaggi negativi attraverso i media?

La storia dei corleonesi non passa solo attraverso la ribellione di Totò Riina, giovane quattordicenne, ma piuttosto dal racconto della “macelleria” di cui si sono serviti per anni per conquistare il potere, tenere i rapporti clandestini e solidi con esso tentando di sovvertire le istituzioni. Ai ragazzini di Corleone non fa male questa realtà ma sentire che c’è un pezzo di Paese che obbedisce a questa realtà. Non fa male la fiction in sé ma un Ministro della Repubblica che dice: si può convivere con la mafia. In molti hanno preso alla lettera queste parole..

Un diverso palinsesto televisivo aiuterebbe a contestualizzare questi racconti?

Sì. Sono d’accordo con l’idea di programmi di approfondimento che consentano di parlare di ciò che nella narrazione di una fiction televisiva non si riesce a fare. Per i giovani è più dannoso vedere un Paese che ci convive. Solo che i palinsesti sono spesso quelli di Tv che rispondono a logiche commerciali e pensare che una Tv metta a disposizione 100 minuti di fiction e poi altre 50 di approfondimento è bello, ma temo non sia di questo mondo.

Passiamo alla libertà di stampa in questo Paese proprio nelle reti televisive. Per molti è a rischio, per altri non estiste il problema. A suo avviso come stanno le cose?

Questo non è un Paese in cui ci sono censure, ma cose più gravi: le autocensure. In Italia non si può cancellare Annozero dai palinsesti tant’è che continua ad andare ancora in onda: parla Travaglio e viene intervistata la D’Addario. Quello che mi preoccupa sono le interviste al premier a Porta a Porta, con giornalisti – direttori delle maggiori testate giornalistiche incapaci di fare domande che escano dalla benevolenza, subalternità, di destra o di sinistra che sia. Il problema non è per esempio sapere quando Berlusconi ha conosciuto lo zio di Noemy ma sapere perché Berlusconi schiera nel suo governo un sottosegretario legato alla camorra e perché si vuole candidarlo alla presidenza della Campania. In questa abitudine alla sobrietà e all’autocensura c’è la decadenza del giornalismo italiano: quando per esempio ci sono 40 villette prefabbricate in Abruzzo consegnate dal premier ai terremotati davanti alle Tv e non c’è giornalista che gli chieda “bene, ma come la mettiamo con le altre 40.000 case non antisismiche?”.

3 ottobre in piazza a manifestare per una informazione libera?

Sì ma temo che non basterà soltanto questo; bisognerà parlare anche dei giornali diventati partito, o di quelle diventate gazzette di qualche sottosegretario, che sia di destra o di sinistra non conta. C’è una stampa faziosa nel Paese e quando ti schieri – a prescindere dai fatti – poco importa per chi ti schieri.

La libertà di stampa è stata sospesa per anni in una parte del Paese, la provincia di Catania, dove un accordo commerciale impediva la distribuzione di Repubbilica con l’inserto siciliano…

Adesso l’accordo editoriale di non concorrenza è stato rivisto dai due editori (Repubblica e Ciancio San Filippo) …Sì, Repubblica da una settimana viene distribuita per la prima volta nella Sicilia orientale ma mi sembra una “foglia di fico”. Se continua a fare in Sicilia quello che sta facendo in questi anni. Non si tratta solo di arrivare nelle edicole, si tratta di raccontare la Sicilia tutta; raccontare Catania, compromesso di un potere politico sempre più ostaggio dei poteri economici e mafiosi, dovrebbe essere per una testata giornalistica argomento di interesse pubblico. Sembra continuare quindi quel patto inconfessabile di non belligeranza fra Repubbilica e Ciancio. Questo mortifica l’informazione in questo Paese.

Ma non ci sono pagine regionali di Repubblica neppure altrove…

Il fatto è che dipende dalle regioni. Se tu stai a Milano puoi anche occuparti di Milano e basta ma se tu stai in Sicilia e accanto a Palermo c’è Catania, centro del potere politico amministrativo ma soprattutto una delle più grandi capitali della criminailtà organizzata e luogo di contraddizioni sociali, come fai a pensare che il rapporto fra Palermo e Catania sia lo stesso che intercorre fra Torino e Vercelli? Basterebbe avere pochi giornalisti con la voglia di andare a vedere per raccontare Catania.

“Posso fornirli io – chiosa Fava – dieci titoli su Catania al direttore di Repubbilica, il problema è che credo che non abbia alcuna intenzione di occuparsene”.

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