Impastato e Rostagno
Sono destini che continuano a incrociarsi, fino a oggi, 26 settembre. Da una parte, in Sicilia, qui a Trapani,il ricordo di Mauro Rostagno, a 21 anni dal suo barbaro omicidio, da un’altra parte, in Lombardia, nel bergamasco, a Ponteranica, dove in tanti provenienti da tutta Italia, hanno sfilato contro la decisione del sindaco di quel centro rimuovere dalla biblioteca dell’intestazione dedicata a Peppino Impastato, anche lui morto ammazzato, a Cinisi, nel 1978, dalla mafia. Impastato e Rostagno, Mauro e Peppino, perfettamente sovrapponibili.
Lo hanno fatto rilevare anche i magistrati della Dda di Palermo che si occupano delle indagini sul delitto Rostagno. Cinisi e Trapani, la stessa mafia, «abituata a mantenere un ferreo controllo del territorio e degli uomini, mal sopportava le attività di Impastato e Rostagno, infastidita dal modo anche irridente dei due di sfidare Cosa Nostra». Annotano i magistrati: «Impastato, nell’isolamento di un paese come Cinisi, interamente controllato da un potente boss mafioso come Gaetano “Tano” Badalamenti, costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il capomafia della zona, rappresentando ogni sua trasmissione, ogni sua parola una sorta di sfida e di oltraggio allo strapotere mafioso, che andava eliminato con la violenza, ma anche con la calunnia per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell’antimafia (e perciò la messinscena sui binari ferroviari per simulare la morte accidentale di un Impastato eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico); così anche Rostagno costituiva un affronto per il potere mafioso, nelle mani dei castelvetranesi Messina Denaro, del mazarese Mariano Agate, del trapanese Vincenzo Virga». Come Impastato irrideva “don Tano seduto” (Badalamenti), Rostagno puntava su Agate, cancellandone «l’immagine di inscalfibilità del potere mafioso», che a quel punto per i boss andava riaffermata, con la morte dell’irriverente.
A Trapani, come era successo a Cinisi, i mafiosi (confermano i pentiti) erano «offesi» dal modo di fare giornalismo antimafia di Rostagno, definito «una camurria».
«La vicenda Rostagno – annotano i magistrati – si inserisce nella storia dei tanti giornalisti uccisi dalla mafia, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Beppe Alfano, Mario Francese, Giuseppe Fava, tutti giornalisti “scomodi” ed uccisi perché scomodi, ed isolati dentro una categoria non sempre solidale coi giornalisti scomodi. Del resto, in linea con una società come quella siciliana, spesso poco solidale coi giornalisti scomodi, condannati a morte e poi uccisi proprio da quell’isolamento, da quell’assenza di solidarietà, da quell’ostilità che crea le premesse dell’omicidio, che spiana la strada agli assassini».
Ma vi sono altre analogie: «Quelle relative a talune strane “manovre depistanti” che hanno caratterizzato le battute iniziali di quella, delitto Impastato, e di questa indagine, omicidio Rostagno; perché e da chi venne accreditata la tesi, architettata dagli assassini di Impastato dell’incidente di cui era rimasto vittima un terrorista rosso? Perché e da chi venne accreditata la tesi, anch’essa comoda agli assassini di Rostagno, che bisognava scavare in un (presunto ma inesistente) passato oscuro della vittima per cogliere il movente del delitto, invece di cercarlo nella trasparenza della sua attività politico-giornalistica di denuncia?
Interrogativi che hanno avuto le loro risposte – seppur non complete – nella vicenda Impastato, ma che nella vicenda Rostagno, come in tante altre storie, più o meno insabbiate, di altri giornalisti uccisi, non hanno avuto ancora alcuna risposta, e che potrebbero accreditare l’ipotesi che, a fianco del movente “interno”, “solo mafia”, vi sia anche un movente “esterno”, “non solo mafia”». Rostagno può avere messo in pericolo anche altri interessi illeciti, non estranei alla mafia ma propri di altri ambienti ad essa contigui.
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