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Il cappio: la lotta al racket in prima fila

Di Lorenzo Frigerio il . Recensioni, Sicilia

“Il cappio”: fin dal titolo siamo catapultati in medias res, perché non c’è dubbio che l’immagine scelta per rappresentare la presa violenta e soffocante della mafia sull’economia siciliana e nazionale è di quella che non lasciano spazio ad alcuna mediazione. Si parla di criminalità organizzata, in particolare di Cosa Nostra e di una delle sue attività principali – l’estorsione, o pizzo nella vulgata quotidiana – in quanto fondante la signoria delle cosche su un determinato territorio.

Il cappio viene messo al collo degli operatori economici, dei risparmiatori, delle famiglie, senza alcuna eccezione, uomini d’onore compresi. Da questa presa soffocante è difficile sottrarsi, non servono gesti isolati ed estremi, ma piuttosto una presa di coscienza collettiva e un cambiamento di atteggiamento a partire dalla quotidianità dei rapporti economici e sociali. A raccontare la violenta imposizione del racket in quel di Palermo sono Maurizio De Lucia, oggi in forza alla DNA dopo un decennio passato alla Procura di Palermo, e il giornalista de “La Repubblica” Enrico Bellavia, da anni in prima linea nel raccontare l’evoluzione del fenomeno mafioso a partire dal capoluogo siciliano. Non vi sarebbe Cosa Nostra senza pizzo, secondo gli autori del libro che, per dimostrarlo, ripercorrono vent’anni di storia criminale, sociale ed economica dell’isola.

Si parte dall’arrivo di De Lucia nella trincea palermitana, nel maggio del 1991, alla vigilia di una serie di eventi tragici che cambieranno il volto del nostro paese e che culmineranno nelle stragi del biennio ‘92/’93. Il 1991 è innanzitutto l’anno in cui viene ucciso un uomo di nome – e di fatto soprattutto – libero: è il 29 agosto quando di prima mattina Libero Grassi viene raggiunto dal piombo della mafia. La ragione principale della sua morte non va rintracciata nella solitaria ribellione al racket, ma piuttosto nel fatto che ha incitato pubblicamente altri a fare lo stesso, utilizzando giornali e televisioni. Quella voce libera deve essere soffocata, i mafiosi non possono permettersi il lusso di lasciare crescere quell’esempio per loro assolutamente deleterio.

Nelle parole del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo davanti alla Commissione Antimafia si coglie la completa sottomissione di una città e di una economia al volere della mafia: “Le estorsioni sono una cosa che va benissimo a Palermo. Le persone sono molto educate nel pagare, nel non fare storie. Pagano quasi tutti. Quando sento dire di qualche industriale, di qualche imprenditore che non paga, mi stranizzo, capisco però che è giusto che dicano di non pagare. Il discorso delle estorsioni più che altro è un prestigio. Vent’anni fa potevano servire quei venti, trenta milioni che entravano per ogni borgata mentre oggi è ormai una questione di prestigio perche con le estorsioni si entra in un circuito di persone con le quali si può entrare in contatto solo se si hanno delle botteghe”. Una sottomissione confermata dal ritrovamento del libro mastro dei Madonia, dal quale si evince la diffusione a macchia d’olio del racket in tutta Palermo. È proprio la saldatura tra il mondo criminale e quello del commercio e dell’impresa che emerge con prepotenza dall’applicazione indiscriminata dell’estorsione. Si creano le condizioni per una serie di relazioni indecenti e improponibili dove la paura cede il posto alla convenienza, il ricatto alla complicità.

Un’ampia zona grigia che le inchieste condotte in questi anni hanno portato alla luce, una complessa e intricata rete di relazioni dove diventa difficile cogliere il confine tra economia legale e economia illegale. La testimonianza divenuta martirio di Libero Grassi assume ancora di più i contorni di una lezione impartita all’intera società, visto che cade in contemporanea ad una sentenza che aveva riconosciuto lo status di vittime ai cavalieri catanesi del lavoro Graci e Costanzo, legittimando come una sorta di necessità ambientale il pagamento della protezione ai boss della mafia.

Prendendo le mosse da quel tragico 1991, con l’aiuto di Bellavia, il magistrato esperto nel contrasto al racket ripercorre i meccanismi dell’imposizione mafiosa, citando anche alcuni numeri che fanno cogliere l’importanza della voce racket nel bilancio della mafia. L’ultimo rapporto di SOS Impresa parla di un fatturato complessivo delle cosche pari a 130 miliardi di euro e un utile netto di 70 miliardi. Di questi ben nove provengono dal racket, mentre le stime di dieci anni prima fanno ammontare il ricavato delle estorsioni in 8.000 miliardi di vecchie lire.      

A sostegno delle acquisizioni sociologiche ed economiche in materia di racket delle estorsioni, il libro riporta il risultato di alcune importanti indagini degli ultimi anni, che hanno visto De Lucia nel pool antimafia della Procura di Palermo. Si parte dal racconto del metodo Villabate, che chiama in causa anche le complicità di importanti aziende, nazionali e non solo, nel prestarsi al gioco delle cosche, per arrivare alle vicende che hanno visto i Lo Piccolo, padre e figlio, contrapporsi a Nino Rotolo per la supremazia su Palermo, ancora sotto la vigile regia di Provenzano, del quale vengono in luce le capacità politiche e mediatore degne di un Richelieu d’altri tempi.
Sullo sfondo le necessità quotidiane della mafia che motivano l’imposizione del cappio sulla città e la regione: lo stipendio per i soldati, il pagamento delle spese processuali, l’assistenza alle famiglie dei carcerati, le necessità della corruzione dell’apparato burocratico e politico degli enti locali.

Ampio spazio viene poi dedicato ad una ricognizione altrettanto importante per capire il pizzo, vale a dire la fenomenologia delle vittime, da ricattato ed estorto si può finire per scegliere di essere soci della mafia. Viene inoltre descritto il sistema degli appalti pubblici che non può certo sfuggire al controllo di Cosa Nostra che ne ha fatto un serbatoio a cui attingere da almeno mezzo secolo. Figure chiave come Angelo Siino e Filippo Salamone accompagnano l’evoluzione dei meccanismi posti in essere dalla mafia per inquinare gare e procedure, al fine di assicurarsi commesse e lavori. Una evoluzione che finisce per interessare naturalmente anche settori, fino a quel momento trascurati, quali la sanità e i fondi europei che invece oggi sono tra le ultime frontiere in cui la mafia si è trovata a allungare le sue mani e i suoi appetiti.

Come vincere allora la fastidiosa sensazione di soffocamento che il cappio della mafia produce stringendo in una morsa mortale società ed economia? Sicuramente coltivando la lezione di Libero Grassi e raccogliendone il testimone, come hanno fatto in questi anni il movimento antiracket e, negli ultimi anni, anche nuove esperienze come Addio Pizzo. Serve soprattutto quel “doveroso impegno ordinario di tutti in una battaglia che è innanzitutto di civiltà e può e deve essere vinta”: parole di Giovanni Falcone con cui gli autori chiudono il bel libro, aprendo alla speranza.

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