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Strategia della tensione in terra di mafia

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Quattro carabinieri indagati e antiche ingiallite pagine che vengono rilette da qualche mese, armadi polverosi che si riaprono, offrono tutti scenari inquietanti gli stessi che da decenni accompagnano tanti gialli che fanno parte della storia delle vicende trapanesi, dove mafia, massoneria, servizi deviati hanno qui sempre trovato utili punti di convergenza. C’entrano le armi, le connessioni tra apparati dello Stato e organizzazioni malavitose e mafiose, strategie diverse che hanno attraversato il nostro Paese, e forse superando gli stessi confini nazionali.

La provincia di Trapani è da sempre «terreno fertile» per connivenze, per traffici non leciti ma fatti sotto occhi che al momento gusto avrebbero fatto finta di non vedere. Il territorio di Alcamo poi ha avuto sempre una sua specificità. La si scopre ancora oggi questa specificità, mentre si parla di indagini sui mandanti occulti delle stragi del ’92, si scopre che era in mano ad alcamesi, e a potenti mafiosi di Castellammare, un cellulare clonato usato da chi in quel luglio del 1992 si stava occupando di come potere uccidere il giudice Paolo Borsellino. In quell’estate pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, i mafiosi trapanesi, Matteo Messina Denaro in testa, si ricordarono di un «alcamese» che non era stato ai «patti», che non aveva saputo evitare una guerra di mafia, ad Alcamo, dove avevano sparato tutti ma proprio tutti i pezzi da 90 di Cosa Nostra trapanese e palermitana, ma Vincenzo Milazzo, capo cosca della zona, era diventato scomodo per non avere saputo tenere a banda una banda di emergenti, e fu ucciso con la sua compagna, Antonella Bonomo. Anni dopo si seppe che i due avevano contatti con uomini dei servizi segreti, potevano sapere qualcosa o potevano riferire qualcosa di pericoloso che si stava preparando.

I quattro carabinieri indagati di cui si parla adesso con queste vicende non c’entrano nulla. Sono sotto inchiesta per altro e lo resteranno per poco perchè la Procura di Trapani ha chiesto per loro l’archiviazione, per prescrizione dei reati. Alcamo invece c’entra e continua ad entrarci. Non foss’altro perchè la Procura di Trapani ha deciso, notizia conosciuta oramai da qualche tempo, di riaprire le indagini su chi il 27 gennaio del 1976 uccise i due carabinieri che prestavano servizio presso la casermetta di Alcamo Marina, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo.

La rivelazione di un ex brigadiere dell’arma hanno fatto accertare che i «balordi» arrestati per quel duplice omicidio non erano i veri colpevoli. Non si sa chi fu, ma loro, Vesco, Gulotta, Santangelo e suo cugino Ferrantelli, Mandalà, non erano stati. Sotto accusa è finito un gruppo di carabinieri,  la «squadra» che lavorava con un carabiniere importante, finito anni dopo ucciso in modo vile dalla mafia, a Ficuzza, nel palermitano, il colonnello Giuseppe Russo: indagati per le violenze fatte patire a quei allora giovani, sono Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Vesco e compagni furono presi e portati in un caserma di campagna, in località Sirignano, tra Alcamo e Camporeale, con acqua e sale, torture, furono fatti confessare quei delitti. Una indagine che però non era perfetta se ci sono voluti una serie interminabili di processi per arrivare però alle condanne. Ingiuste secondo i particolari che emergono raccontati da quell’ex brigadiere.

I carabinieri indagati hanno deciso di non rispondere alle domande dei magistrati della Procura di Trapani, dalla loro parte il fatto che non andranno incontro a conseguenze alcune, i reati nei loro confronti sono prescritti per cui usciranno presto dalle indagini. Difficile che alla loro coscienza invece potranno decidere ancora di non rispondere. Sapevano quello che stavano facendo e forse per il peso, forse per altro, alcuni di loro hanno per tempo raccontato ai loro familiari quello che accadde in quell’inverno del 1976. Chi si sta occupando nuovamente di queste indagini ha appreso la circostanza ascoltando delle intercettazioni scattate all’indomani della riapertura delle indagini sull’eccidio della casermetta di Alcamo Marina e sulle violenze patite da chi con quel duplice efferato delitto pare non c’entri nulla. I familiari di un maresciallo, Giovanni Provenzano, uno di quei sottufficiali dei quali si fidava tanto il colonnello Russo, sono stati sentiti parlare di quella storia, la moglie ed i figli di Provenzano hanno svelato, parlando tra loro, che loro sapevano, “papà ci raccontò tutto” sono stati sentiti dire i figli Michele e Rossana, e la loro madre, Lina, ad un certo punto spiega quasi a giustificare quell’azione, che c’erano stati quei carabinieri ammazzati e i loro colleghi avevano tanta rabbia in corpo “e per farli parlare allora hanno usato…..”

E se l’indagine sui carabinieri che con le violenze, agli ordini del loro comandante, come ha raccontato quell’ex brigadiere che fece parte di quel gruppo messo su in tutta fretta appena scoperto l’orrendo delitto dei due militari ad Alcamo Marina, ascoltato apposta dai magistrati, dopo che questi ad un blog affidò il suo sfogo, si appresta ad essere archiviata come ha chiesto la Procura di Trapani, ce ne è un’altra indagine che ha ripreso a camminare, quella sull’omicidio dei due carabinieri di Alcamo Marina che i pm trapanesi vogliono tentare di risolvere, e poi capire quale sia stato lo scenario. E’ in questo ambito che si rileggono carte ingiallite e si riaprono antichi armadi. Quel 27 gennaio del 1976 fu una pattuglia di scorta all’allora leader Msi Almirante a scoprire quei carabinieri ammazzati nella casermetta.

Non ci sarebbe stato ragione di fermarsi, eppure lo fecero. Ed è da lì che le indagini sono ripartite. E sembra che il filo di questa matassa, sbrogliandosi, sia finito con l’entrare dentro altre vicende, strane, di armi e connessioni, in quei periodi in cui, per dirla come c’è scritto in qualche sentenza, con la quale in provincia di Trapani sono stati condannati mafiosi e loro complici, non sem

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