L’ombra dei servizi sulle stragi. Intervista a Gioacchino Genchi
«Andate a vedere là, al castello Utveggio, quella è roba vostra» ha
detto Totò Riina venerdì parlando per la prima volta dopo 17 anni con i
magistrati di Caltanissetta e accreditando l’ipotesi che sulla strage
di via D’Amelio ci sia, anche, la mano dei servizi segreti. È il
passaggio forse più significativo del colloquio investigativo durato
quasi tre ore. Ed è un passaggio che si ritrova pari pari nelle
motivazioni di sentenze passate in giudicato. «Le testimonianze del
dottor Gioacchino Genchi e della dottoressa Rita Borsellino hanno
offerto contributi determinanti su quello che realisticamente potrebbe
essere stato l’intervento di soggetti esterni su Cosa Nostra (nella
realizzazione delle stragi, ndr)» si legge nella sentenza di condanna
per la strage di via d’Amelio. E ancora, qualche pagina dopo: «Il
dottor Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista
potesse essere appostato nel castello Utveggio, ipotesi utile per
ulteriori sviluppi, era stata lasciata cadere da chi conduceva le
indagini».
Piste abbandonate
Insomma, può essere un ossimoro, ma Riina e le indagini dicono la
stessa cosa e puntano sui servizi segreti. «Di certo – spiega Genchi
impegnato oggi in comizi e dibattiti a tenere alta l’attenzione sui
nuovi sviluppi sulle stragi del 1992 e del 1993 – il riscontro alle mie
indagini non arriva oggi da Riina ma da tracce telefoniche
inequivocabili acquisite alle inchieste». E che prescindono dal fatto
che magari quel processo sia da rifare dopo che il boss Gaspare
Spatuzza ha smentito Scarantino, uno dei perni della vecchia inchiesta.
Genchi, esperto di telefonia, chiamato in causa di recente per eccessi
nell’acquisizione di tabulati seppur come consulente delle procure, era
all’epoca uomo di punta nel pool investigativo creato per la strage di
Capaci e poi per via d’Amelio. (rapporto concluso nel maggio 1993 per
divergenze). Scoprì, ad esempio, che, si legge in sentenza, «nel
castello Utveggio (costruzione che domina Palermo e via d’Amelio, ndr)
aveva sede il Cerisdi, ente regionale dietro il quale trovava copertura
un organo del Sisde». E che questo luogo divenne crocevia di utenze
clonate, telefonate intercettate e, soprattutto, «il possibile punto di
osservazione per cogliere il momento in cui dare impulso all’esplosivo»
caricato sotto la 126 parcheggiata davanti all’abitazione della madre
di Paolo Borsellino e che saltò in aria alle 16,58,02 del 19 luglio
1992.
Le indagini hanno individuato Pietro Scotto (condannato e poi assolto)
come «autore di lavori non autorizzati sulla linea telefonica del
palazzo di via d’Amelio (l’intercettazione con cui Cosa Nostra seppe
che il magistrato sarebbe andato lì, ndr)». Scotto è stato riconosciuto
da due testimoni; era dipendente della società telefonica Sielte che
lavorava con gli 007; soprattutto è fratello di Gaspare Scotto, boss
del mandamento dove è avvenuta la strage. «L’analisi delle telefonate
di Gaetano Scotto – si legge in sentenza – evidenzia contatti con le
utenze di castello Utveggio fino al febbraio 1992».
Genchi, trova la prova che «un’utenza telefonica clonata (di una
signora napoletana ignara di tutto, ndr) era in possesso dei boss fin
dall’autunno 1991» . E che quell’utenza, «in prossimità del 19 luglio
(giorno della strage, ndr) chiama una serie di villini che si trovano
lungo il percorso che l’auto di Borsellino aveva percorso quella
domenica». Si tratta di contatti telefonici con probabili punti di
osservazione lungo il tragitto. Lo stesso apparecchio clonato chiama
altre «utenze del Sisde che si incrociavano con telefoni che la
domenica avevano chiamato i villini- punti di osservazione».
Il funzionario del Sisde
Era di uno 007 anche il numero di telefono trovato sulla montagnola di
Capaci da dove fu fatta saltare l’auto di Falcone. Infine Bruno
Contrada, lo 007 poi condannato per mafia. Il pomeriggio del 19 luglio
era in barca con un altro funzionario, lo stesso il cui numero è stato
trovato a Capaci. Ottanta secondi dopo l’esplosione, quando nessuno
ancora sapeva, dal cellulare di Contrada partì una telefonata. Era
diretta, ancora una volta, al Sisde. Ne aveva ricevuta anche un’altra,
due minuti prima dell’attentato. Ma su questa c’è solo una
testimonianza. All’epoca i tabulati non trattenevano le chiamate dal
fisso al mobile. «Nonostante il tempo passato restano ancora molte
tracce» dice Genchi, «vanno sapute seguire».
Riina ai pm ha puntato il dito «sul castello Utveggio». Qui negli anni
novanta c’era un sede coperta del Sisde. E da qui partirono telefonate
ai boss nei mesi prima e fino a pochi secondi dopo la strage.
Tratto da: l’Unità
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