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Arlacchi: nel ’92 si poteva vincere, abbiamo sprecato un’occasione

Di Francesco La Licata* il . Sicilia

Vedo un pericolo, in questa overdose di servizi più o meno deviati, di
trattative, di improvvise loquacità di uomini come Riina, di papelli
sparsi in giro più per confondere che per fare chiarezza». Il prof.
Pino Arlacchi, eurodeputato dell’Idv e studioso dei fenomeni criminali,
può essere considerato un testimone d’eccezione di quel momento della
storia d’Italia improvvisamente tornata alla ribalta. Era in stretto
contatto con Falcone e Borsellino, era il più vicino collaboratore del
ministro dell’Interno Vincenzo Scotti ed era uno dei punti di
riferimento – l’altro era Gianni De Gennaro – della Direzione
investigativa antimafia, la polizia che Falcone pensava come braccio
operativo della Direzione nazionale antimafia (la famosa
“Superprocura”), entrambe ideate per la battaglia frontale contro Cosa
nostra all’inizio degli Anni Novanta.

Professore, quale sarebbe il pericolo di cui parla?
«Che prevalga l’idea sbagliata, fortemente perseguita dalla mafia, che
non c’è mai stata nessuna genuina opposizione a Cosa nostra e nessuna
possibilità di vittoria. Io dico il contrario, dico che in quegli anni,
specialmente a ridosso della strage di Capaci e fino al ‘94 noi abbiamo
avuto la possibilità di farla finita con la mafia. Purtroppo
quell’occasione l’abbiamo persa, ma le condizioni per vincere c’erano,
anche dopo Capaci e via D’Amelio. Perché l’apparato di contrasto era
molto più forte di quelle frange marginali dello Stato che remavano
contro, facevano trattative e papelli».

Sta dicendo che erano di dominio pubblico gli ammiccamenti con la mafia e gli inciuci?
«Oddio, non so quanto fosse condivisa la conoscenza di certe anomalie.
Io posso dire che ne parlavamo con Falcone e Borsellino che incontravo
regolarmente ogni settimana. Ma non era questa la nostra preoccupazione
principale: i contatti tra investigatori particolarmente audaci e boss
della mafia sono sempre esistiti e sono esistiti patti ed accordi. Il
famoso giorno dell’insediamento del ministro Mancino, il primo luglio
del ‘92, il giorno in cui si sarebbe incontrato con Borsellino, Paolo
venne a trovarmi e parlammo. Eppure non erano i servizi deviati il suo
maggiore cruccio, era lacerato dal dubbio se dovesse accettare o no
l’invito a fare il Procuratore nazionale. A frenarlo c’era il problema
della figlia che soffriva molto per l’eccessiva esposizione del padre».

Professor Arlacchi sembra che lei non dia alcuna importanza all’esistenza di una trattativa fra Stato e mafia.
«Dico semplicemente che non bisogna fare confusione, perché trattative
fra Stato e mafia ce ne sono sempre state. In quegli anni cruciali ce
n’erano in piedi più d’una, addirittura tre o quattro ed erano
intrattenute da centri marginali dello Stato. Marginali non vuol dire
ininfluenti: era gente che stava nei servizi, nei Ros e negli apparati
investigativi d’eccellenza. Perché trattavano? Un po’ per cercare
pentiti, molto per arginare i successi della polizia molto ben
organizzata da Parisi e da De Gennaro. Perché è bene che si sappia: il
cancro della lotta alla mafia è sempre stata la concorrenza, le gelosia
tra apparati dello Stato».

Ma il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, non bastava a fermare le spinte, diciamo, antagoniste?
«Lui era l’elemento di equilibrio, per cultura e per matrice, essendo
un uomo di intelligence più che un poliziotto. Ovviamente sapeva cosa
si muoveva attorno all’attività antimafia, ma riusciva sempre a
blandire ad addomesticare, calmare e, in sostanza, a controllare queste
frange che remavano contro e cercavano successi in qualunque modo,
anche i più disdicevoli».

Ha detto una brutta parola.
«La spaccatura era tra chi aveva scelto la strada maestra, diretta e
trasparente, quella dei pentiti sottoposti al vaglio della
magistratura, e chi continuava col vecchio metodo dei confidenti e del
rapporto fiduciario e incontrollato con le fonti allargatosi parecchio
dopo lo sforzo, anche economico, profuso dallo Stato. Questa situazione
era ben chiara a tutti: sapevamo che in quel guazzabuglio c’erano fior
di delinquenti, capaci anche di uccidere, e sapevamo pure che avevano
alle spalle coperture politiche di alto livello che, tuttavia, in
quegli anni cominciavano ad essere perdenti. Chi remava contro, in
sostanza, lo faceva con la benedizione di un gruppo politico che
cercava di mantenere lo status quo e fermare l’emorragia di consensi
che cominciava ad essere pesante, specialmente in concomitanza con le
inchieste sulla corruzione».

Ha qualche idea circa l’identità di questi politici?
«Non è un discorso che può esaurirsi in una intervista. Le posso dire
che quegli apparati infedeli tentarono il colpo grosso, nel 1989, con
la bomba all’Addaura contro Giovanni Falcone. Gli andò male, ci
riprovarono con successo tre anni dopo a Capaci. Il giorno dell’Addaura
andai da Falcone e gli chiesi: “Chi è stato?” Giovanni mi rispose con
la sua solita ironia: “Ti potrà sembrare letterario e retorico, ma è
stata proprio la prima persona che mi ha telefonato per darmi la
solidarietà e ti dico che nel ricevere quella telefonata mi è sceso un
brivido lungo la schiena”. Ovviamente è inutile che mi chieda il nome
del portatore di solidarietà».

Addaura e via D’Amelio, unico filo?
«Poi arriva la sentenza definitiva della Cassazione sul maxi processo,
conseguenza anche della buona politica di Scotti, Martelli e Mancino, e
scatta la controffensiva: ammazzano Lima, Ignazio Salvo, Falcone e
Borsellino. Ma attenzione neppure la controffensiva a vasto raggio ha
funzionato perché la mafia è stata messa all’angolo, con la cattura dei
latitanti, col carcere duro e coi processi di mafia e politica che
certificano il cambiamento di clima rispetto a Cosa nostra».

E le stragi nel Continente del ‘93?
«Fu il proseguimento coerente di quel disegno e proprio le cosiddette
trattative, i contatti anomali aprirono la strada all’eversione
mafiosa, ancora una volta protetta da false analisi e depistaggi come
quello – sostenuto da Sismi e Sisde – che, nell’immediatezza degli
attentati di Roma, Firenze e Milano, invitavano a indagare sulla
criminalità colombiana, balcanica o sul terrorismo internazionale. Solo
la Dia indicò la pista inconfondibile del terrorismo mafioso».

A che punto è il disegno?
«La strategia è cambiata con l’inabissamento di Cosa nostra. Tutto il
potenziale antimafia di Falcone e Borsellino è rimasto in piedi, ma
svuotato dal di dentro: il pentitismo disincentivato, le leggi più
permissive, insomma la normalizzazione. Se dovessi usare una immagine,
direi che la pax mafiosa si è concretizzata in un doppio passo
indietro. Cosa nostra non ha più ucciso e lo Stato ha rinunciato
all’occasione propizia per liberarsi per sempre della mafia».

*Tratto da: la Stampa

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