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Lettera a mio figlio per via D’Amelio

Di Giulio Cavalli* il . Atti e documenti

Testo scritto e recitato in Via D’Amelio il 19 luglio 2009 per
il diciassettesimo anniversario della strage di Paolo Borsellino e la
sua scorta.

Ecco Leonardo,
questa sera per non addormentarsi mi viene con un nodo di raccontarti
una storia. Una storia di quelle che non dormono, una storia che a
guardarla di fretta, di passaggio, o da lontano ha la gonna della
favola per un giro beffardo di sensi unici nel rione del destino. Una
favola con i buoni, un re, una guerra e addirittura un castello. Una
favola con tutti i trucchi e gli ombretti per finire dritta nei libri
rilegati di azzurro e di rosa,  sullo scaffale del conforto e della
buonanotte. È che succede, caro Leonardo, che una mattina, sarà che
c’era un umido che ci gocciolava tra le ossa, l’onestà e il cuore, o
sarà stato che era una mattina che ci si era acceso a tutti il diritto
di rivendicare un dubbio, un punto di domanda. Un punto di domanda che
si stiracchia appena nato e morde il guscio. Un punto d domanda che è
andato a riprendersi un libro, il libro della storia con i buoni, con i
re, con la guerra e addirittura il castello. Ma una favola da rendere,
restituire  perché ce l’hanno venduta scassata: ci hanno venduto una
favola in cui ci mancano i cattivi.

Prima c’è un buco: un buco e Palermo che gocciola tutto intorno. Dentro
il buco c’è una fetta di mondo. C’è un figlio che è a un mezzo
centimetro dal primo ciao di oggi  per sua madre, C’è Emanuela,
Vincenzo, Claudio, Agostino e Eddy che anche oggi sono a misurarsi per
un mestiere con la pistola in tasca al posto delle ali. C’è quell’alone
sempre stonato e che sa di metallo di costringersi ad illudersi che si
possa veramente, anche per oggi, almeno per mezz’ora pure mezza
festiva, si possa veramente, non essere un nemico, non essere un eroe,
essere un figlio attaccato al citofono.
Ecco, Leonardo, io da padre non avrei mai voluto raccontarti che qui
succede che le favole a volte comincino con un’autobomba, come uno
schiaffo che è uno sputo di sangue e subito dopo un plotone di potenti
con lo straccio in via D’Amelio a leccare gli ultimi avanzi. Ecco io
non avrei mai creduto di pensare che ci siano leoni che pascolano nella
memoria come per mangiarsela in un banchetto apparecchiato in mezzo
alla savana. Ecco io non vorrei non farti addormentare raccontandoti
che ci sono bombe che scoppiano in un silenzio sudato come un replay.

Non si era mai visto nelle favole rosa o azzurre un ladro come un
bassotto con un’agenda in mano, mentre tutto intorno bolle come un
rallentatore un brodo di pezzi e sangue. Ecco, io da padre, non so
proprio come spiegartela a te che dovresti dignitosamente essere
bambino che dentro all’intestino di quel buco con Palermo che gocciola
tutto intorno c’è un guanto di gomma che si tura il naso e si porta via
la memoria del buono, come un dente sul sangue che sanguina e si mette
in tasca la memoria. Una memoria a forma di agenda. Un’agenda nella
tasca insieme al fazzoletto usato del ladro, le chiavi di una casa a
forma di castello e qualche pezzo di qualcuno, portato tra le scarpe
come fosse una macchia di sugo. Un’agenda a forma di buco.
È una favola che non addormenta nessuno una favola che comincia con
un’autobomba e finisce con un’agenda che non c’è. È Peter Pan in
canotta e ubriaco che non vola più. Una storia che non meriteresti, da
mio figlio poco prima di addormentarti, in questa sera che è
l’anniversario di una storia che con le unghie mi si arrampica sul
cuore.

Nelle favole che hanno fatto carriera c’è sempre un bel matrimonio,
tutto fiori e parenti con strette di mano al buffet. Uno sposo e la
sposa che ridono per ridere tra la panna e le bollicine. Vedi,
Leonardo, perché ce l’hanno mandata scassata questa mezza storia
stropicciata come una lista della spesa. Il matrimonio ci tocca andarlo
ad annusare grattando via tutta questa vernice, questo smalto in giacca
e cravatta che profila venti anni di storia tutta muta, farsa e
condonata. Venti anni di storia a forma di bugia metallizzata. Ecco,
qui il matrimonio l’hanno sepolto sotto un avverbio come si conviene
per le figure oscene dentro ai libri per bambini. Un matrimonio con
troppi padri per una sposa, le nozze invisibili celebrate dentro un
confessionale. E allora vedi, caro Leonardo, che favole da ridere dove
dentro si sposano i buoni con i cattivi e nemmeno un mezzo ciuccio che
crede di essere un cavallo bianco. Non ci sono figli che si meritano
favole taroccate, con Pinocchio che sposa Mangiafuoco o Cappuccetto
Rosso che ha le provvigioni sulla cesta della nonna. È impossibile
quasi trovarci le parole che è incredibile come l’abbiano scritta.

Una favole che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Ecco, Leonardo, non avrei mai creduto di mettermi con la testa così
alta a raccontarti un favola che non piace a nessuno anche se, come
dice il buono di questa nostra storia in questa  sera, sarà che proprio
perché non mi piace ho cominciato ad amarla e il vero amore consiste
nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare. Sarà per questo
che la ripeto tutte le sere per guadagnare i mio stipendio con la
parola da raccontare.

Una favola taroccata con un castello e un campanello. E dietro al
campanello non rispondono né principesse né draghi. Una favola con un
castello che non risponde nessuno. Un castello con un cordone
ombelicale che umido si sotterra nelle fogne di via D’Amelio.
Una favola schifiata con i protagonisti che hanno dimenticato la parte,
e balbettano qualcosa, come alla recita d’asilo provata male, e
s’imbarazzano nascondendosi in quinta.
Una favola con i buoni che finiscono per la colpa di volere iniziare, i
cattivi sott’aceto e un funerale lavato con il borotalco.
Una favola stuprata, che per quattro monete il gatto e la volpe si sono rivenduti il finale.
Una favola coperta con il lenzuolo bianco, un lenzuolo che figlia muffa mentre soffoca il sole.
Una favola che si arrotola nei processi, che si mescola e impunita
ride. Come un disegno che non si capisce da che lato guardarlo.
Una favola che non si sono nemmeno presi la briga di raccontarci e già speravano che si fosse addormentata.
Una favola tutta rutti e sorrisi, rigurgiti e strette di mano.
Una favola che sta scritta nelle cose non dette, con il principe chiuso
a chiave dentro il cesso, la principessa a forma di macchia sul muro e
il cavallo bianco cucinato alla griglia.
Una favola dove non si capisce chi ha posato i fiori e chi ha posato le bombe.
Ecco Leonardo, non è per niente civile farti addormentare questa sera
raccontandoti la paura, la paura che nel paese fatato spegne le luci
come una magia. Ecco, quando da papà ogni tanto mi scopro in tasca la
paura penso sempre che sarebbe come offendere questa favola. Con la
paura accartocciata che è sempre ora di buttare via.
E allora sarebbe il caso che venga qualcuno, a raccontarla questa
favola ai nostri figli, a riprendersi quella sbeccata che vi ridiamo
volentieri di resto. Sarebbe i caso almeno perché non è mica una
questione di onore, non è mica una questione di gusto: almeno per un
senso di quella pudica verità.
Sarebbe il caso di curarlo quell’occhio allucinato e stanco di un
bambino davanti ad una favola che non riesce ad addormentare nessuno.
Una favola che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Una favola con i buoni a pezzetti e senza cattivi in cui cercano
comunque di sfilarci tutti. Con i tromboni della politica manieristica
che recitano a mani giunte, con le finestre chiuse dei soliti fondali
delle storie da non raccontare, con, per non farsi mancare niente in
questo diciassettesimo silenzio che non vuole stare zitto seduto
sull’orlo del buco, per questo diciassettesimo anniversario di una
storia sotto spirito, anche l’onore basso di Riina U’ Curtu che si
intrufola per gridare che non è stato lui e alzare la manina come nei
castighi di classe.

Una favola zeppa di gente che non è stata, che non sa, che non ricorda,
che non c’era eppure commemora. Una favola senza storia che ci finge di
avere memoria. Un’isola che non c’è. A forma di buco.
Ecco, caro Leonardo, da papà ti dico e ti racconto che per questa sera
la morale devi andarla a prendere, tirarla per una manica e salvarla da
quel buco con una nazione tutto intorno. Ecco, ci sono favole che le
senti da piccolo e c’è da digrignare i denti per capirle ormai vecchio.
C’è il dovere di verità e giustizia dentro l’alito anche del più bucoso
dei buchi.
Ci sono favole che alla sera, quando si smette di raccontarle, ti fanno venire voglia di tenere accesa la luce.

*dal blog di Giulio Cavalli

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