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Nessuno sfugge alla legge del pizzo

Di no.fe. il . Sicilia

E’ ancora il boss 84enne Gerlando Alberto, detto U Paccarè, a fare da «consigliori» ai rampolli delle famiglie di Cosa nostra che esigono pizzo e tentano di ricostruire la struttura militare in forte crisi sul territorio. «Qualunque uomo d’onore vuole un consiglio, ancora oggi, va da lui perchè lui  – dall’alto della sua esperienza – ha sempre una parola buona per tutti, conferma il pentito Manna al procuratore generale Ettore Costanzo». U Paccarè e gli altri boss, dunque, “dall’alto della loro esperienza” continuano a tirare le fila dell’economia e delle strategia di Cosa nostra palermitana.

Questo è uno degli aspetti che emerge dal processo Gotha in corso davanti al gup di Piergiorgio Morosini  durante la quarta sezione penale della corte d’appello in cui si stanno giudicando una cinquantina di mafiosi arrestati per favoreggiamento alla latitanza del boss numero uno di Cosa nostra, Bernardo Provenzano.

«Io so che la ditta che sta costruendo il parcheggio davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo – dichiara il pentito Fabio Manna nello stesso processo Gotha – ha subito richieste di estorsione e per la precisione fu avvicinato da un emissario di mio zio Alberti. Poi seppi che erano riusciti ad avvicinarli perché era interessato anche un imprenditore di Gela».

 Le parole di Manno confermano i risultati di un’altra inchiesta in corso a Caltanissetta che ha portato all’arresto di undici persone con l’accusa di estorsione proprio alla ditta aggiudicatrice dell’appalto per il parcheggio del Tribunale.  Fra le persone finite in carcere anche Sandro Missuto, titolare della ditta gelese in affari con via subappalto con la Safab, ditta romana che dopo tre anni sta portando a termine i lavori del parcheggio (di circa 16 milioni di euro). Dalla ditta arrivano solo smentite: nessuna richiesta di pizzo. Ma il pentito Manno ribadisce che le famiglie avevano fiutato l’affare ben prima dell’inizio dei lavori.

Nemmeno davanti al Palazzo di Giustizia insomma si può lavorare sicuri se si opera nei cantieri edili, con il cemento e per produrre servizi. Nemmeno nella Palermo dell’addio al pizzo e dell’associazionismo antiracket, che pure stanno cambiando il volto dell’economia della città.

Negli stessi giorni si scopre infatti che appartiene ad un  mafioso anche il negozio di ottica Borruso di Palermo. Intestato ad un prestanome l’ottica in realtà apparterrebbe al  boss Mario Martello  uomo imparentato e legato alla famiglia di San Giuseppe Jato, già arrestato per numerosi reati, dal furto al traffico d’armi oggi ergastolano. Il prestanome Giovanni Borruso è oggi accusato di intestazione fittizia di beni e il negozio che secondo la Dda di Palermo ha un valore di circa 400 mila euro è stato posto sotto sequestro.

 Nell’ultimo rapporto della Direzione nazionale antimafia la situazione nella città di Palermo nel post- Provenzano viene cosi descritta: … il “gettito” delle entrate illecite dell’associazione mafiosa  – scrive la Dna – è sostanzialmente costituito dai proventi delle estorsioni compiute in maniera capillare dagli affiliati a “cosa nostra” ai danni degli operatori economici. Ha trovato, perciò, ulteriore conferma la riflessione secondo cui il fenomeno delle estorsioni costituisce per le famiglie mafiose di “cosa nostra” la principale fonte di reddito, uno strumento di arricchimento per l’organizzazione e di controllo del territorio da parte della stessa, atteso che il c.d. “pizzo” viene imposto diffusamente a tappeto.

In grave difficoltà sul territorio per l’azione delle forze dell’ordine e l’ aumento delle denunce Cosa nostra è sempre li: capillare, puntuale, pronta a riorganizzare affari ed ottimizzare investimenti, come dimostrano anche gli ultimi arresti nell’ennese. E poi molto vicine a queste storie di pizzo e mafia ci sono i processi “importanti” quelli che stanno raccontando la storia di una trattativa nascosta fra lo Stato e la mafia e altri misteri che hanno lanciato boss di provincia ai vertici di  Cosa nostra e carriere politiche sino al Parlamento.

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