Palla avvelenata
Un gioco maledettamente serio, popolato tanto da eroi quanto da personaggi oscuri, percorso da un fiume di denaro in costante crescita e al quale in tanti – forse troppi – mirano ad attingere. Che una simile immagine si attagli perfettamente al mondo del calcio risulta tutt’altro che strano alla luce del rapporto dell’Ocse sul tema del riciclaggio nell’universo pallonaro. Il documento si basa su uno studio condotto dal Financial Action Task Force (FATF), organismo inter-governativo per la tutela del sistema finanziario globale dal riciclaggio di denaro e dal finanziamento al terrorismo. Cosa c’entra il calcio, verrebbe da chiedersi. Ebbene, se si considera l’attuale congiunzione economico-sociale, là dove una crisi di eccezionale portata costringe tutti – dai ministri del Tesoro ai sindacalisti – a ricercare una nuova e più adeguata collocazione all’interno del sistema perché la precedente si è dimostrata non più praticabile, ecco che la galassia dello sport e del calcio in modo particolare, si trasforma in una sorta di terra promessa. Perché se è vero che la mafia non conosce crisi, è altrettanto innegabile che necessita di diversificare i propri affari, in primo luogo per eludere il controllo della legge. Quale modo migliore per riciclare i proventi di attività illecite che quello di riversarli in un mercato immenso quanto a risorse ma normativamente povero?
Il calcio, con la sua capacità di muovere un giro d’affari imponente e destinato ad accrescersi grazie alla discesa in campo di nuovi e ricchi interlocutori, rappresenta un terreno fertile per il riciclaggio di denaro sporco. Il suo stesso modo di strutturarsi presta infatti il fianco a una serie di vulnerabilità. Quella galassia più ristretta che è il professionismo ha subito una crescita impressionante con la commercializzazione intervenuta a partire dai primi anni Novanta. Le somme investite sono derivate in massima parte dagli introiti ottenuti dalla vendita dei diritti televisivi e dagli sponsor. Ma all’aumento dei capitali messi in circolo non ha fatto da contraltare una regolamentazione ad hoc, così che il flusso immesso sul mercato è sovente sfuggito al controllo delle federazioni nazionali e internazionali, offrendo l’opportunità di riciclare denaro senza dichiararne la provenienza. E non è tutto. La sentenza Bosman con la quale nel 1995 si stabiliva la libera circolazione dei lavoratori entro i confini comunitari ha avuto l’effetto di liberalizzare il mercato dei calciatori, aprendo la strada a trasferimenti sensazionali. Strettamente connessa con quest’aspetto è l’ascesa della non meglio definita figura del procuratore sportivo, personaggio al limite fra l’avvocato e il commercialista, destinatario di una lauta percentuale ogni volta che un suo assistito appone la propria firma su un contratto. Limitati a uno o due per decennio, i trasferimenti plurimilionari sono diventati una consuetudine da quando le società calcistiche hanno cominciato a essere rilevate del tutto o in parte da facoltosi investitori pronti a estemporanei aumenti di capitale pur di assicurarsi le prestazioni dell’astro più splendente del momento (valga il caso di Florentino Perez, che all’indomani del reisediamento alla presidenza del Real, annunciava l’acquisto di Kakà per 64 milini di euro). Il meccanismo innescato sarà dunque quello del ‘chi più spende più vince’; ed ecco fior di società sull’orlo della bancarotta per le follie di una stagione o due (ultima in ordine cronologico il Valencia). Proprio sull’urgenza di reperire la liquidità necessaria all’estinzione dei debiti contratti fanno leva quei personaggi oscuri che proponendosi quali ancore di salvezza per le squadre in crisi, riescono a rilevarle senza dover rispondere della provenienza del denaro che mettono sul tavolo. Il rapporto cita in proposito quanto accaduto nel 2006 nell’ambito del tentativo di rilevare il pacchetto di maggioranza della S.S. Lazio da parte di una cordata di imprenditori facente capo a Giorgio Chinaglia: le indagini avviate dalla Procura della Repubblica hanno dimostrato che il denaro utilizzato per l’acquisto delle azioni proveniva da un’associazione criminale operante nell’Italia centrale, mentre sono ancora in corso procedimenti per riciclaggio, insider trading, estorsione, concorrenza sleale e aggiotaggio.
Casi come questo, ma anche altri in cui il riciclaggio di denaro sporco viene perpetrato contestualmente alla compravendita di società mediante il ricorso a compagnie con sede in paesi a regime fiscale privilegiato o dov’è più rigido il segreto bancario, sono resi possibili secondo il rapporto da precisi difetti di struttura del sistema calcistico. In primo luogo , l’estrema permeabilità del mercato, popolato da una moltitudine di soggetti e flussi di capitali, da differenti tipi di entità giuridiche e da una classe di manager non sempre professionalmente qualificata. Secondariamente, la necessità per i club di una grande disponibilità finanziaria per rimanere competitivi, e la conseguente mole d’affari mossa dal mercato dei calciatori che sembra seguire logiche del tutto irrazionali, tanto da far passare in secondo piano la trasparenza nell’origine e nella destinazione dei pagamenti. Un terzo ordine di vulnerabilità è infine riconducibile alla cultura del settore calcistico, che con la sua tendenza a trasformare repentinamente un ragazzo di talento in un idolo delle folle, da un lato fa leva sulla vulnerabilità dei giovani calciatori, dall’altro rende il mondo del calcio estremamente appetibile per quanti desiderino elevare il proprio rango sociale. Proprio quest’ultima sembra essere fra le principali ragioni dell’interesse della criminalità a mettere le mani sulle società calcistiche, come recentemente sottolineato anche dal Procuratore Nazionale Antimafia: «Per evitare di essere strangolato dal potere della criminalità, evidentemente interessata al potere sociale che genera e alla possibilità di ripulire denaro – ha dichiarato Pietro Grasso – il calcio deve apprezzare e fare sue posizioni come quella presa recentemente da Mediobanca nella vicenda della Roma (ove l’istituto di credito milanese, operando in qualità di advisor del gruppo Italpetroli, ha posto il veto sull’acquisizione della società da parte di una cordata guidata da Vinicio Fioranelli per la scarsa trasparenza dei fondi offerti, ndr).»
Tracciabilità dei capitali. Sembra essere questo l’antidoto alle infiltrazioni mafiose. Conoscere chi mette i soldi e da dove essi provengono; impedire il ricorso a compagnie esterne e verificare scrupolosamente il percorso seguito dai capitali coinvolti nelle operazioni. Già, ma con quali strumenti? Un esempio in tal senso potrebbe venire dalla Federazione inglese che lavorando a stretto contatto con le autorità giudiziarie ha posto in essere ormai da due anni un sistema di monitoraggio dei trasferimenti di calciatori e dei pagamenti a favore dei procuratori sportivi. E l’Italia? Fermo restando il suo cronico immobilismo, confermato dalle recenti dichiarazioni del presidente Abete secondo cui il nostro calcio sarebbe al riparo da infiltrazioni mafiose, la Federazione ha deputato un apposito organismo, la Covisoc, all’esercizio del controllo finanziario sui club professionisti (lasciando così fuori l’intero universo dei dilettanti, non nuovo a scandali di vario genere, dalle scommesse al doping). Se l’imperativo categorico dev’essere quello della trasparenza, allora forse i vertici del nostro calcio potrebbero fare di più.
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