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Nicolai Lilin – Educazione Siberiana

Di Stefano Fantino il . Recensioni

Sarebbe ingiusto parlare di Educazione Siberiana, primo romanzo di Nicolai Lilin, senza tenere in considerazione e affrontare alcune questioni che, qualora rimanessero inevase, condizionerebbero il giudizio e l’analisi del libro.  

Prima fra tutte quello di considerare il romanzo edito da Einaudi come  una pubblicazione, l’ultima tra tante, sulla mafia. Visione quantomeno opinabile fosse solo per la localizzazione geografica dei fatti che il ventinovenne tatuatore racconta: la Transnistria, regione al confine tra Europa e Asia, ufficialmente parte della Moldavia ma di fatto indipendente, sebbene non vi sia riconoscimento da parte delle autorità internazionali.  

La criminalità raccontata da Lilin è un viatico selvaggio e sconvolgente da percorrere in una realtà sempre un passo oltre la civilità, con lo scopo di sopravvivere: nel romanzo l’iniziazione all’uso delle armi in tenera età, il ricorso alla rissa, all’omicidio, alla punizione fisica, all’atto criminale sono raccontati come unici mezzi, per quanto turpi e risoluti, per riuscire, ancora una volta, a superare indenne la realtà di un territorio. Quella Transnistria dove gli Urca Siberiani decenni prima furono trasportati e dove continuano a tramandare (almeno fino agli anni di infanzia dello scrittore) i dettami di una “educazione siberiana” che Lilin ci racconta diversa da quella che altri gruppi criminali portavano avanti. Il disprezzo per il denaro, il rispetto per le donne e per i disabili, figli di Dio, la necessità di una motivazione valida per compiere un delitto.  

A guardarli bene, con gli occhi del lettore occidentali, esempi allucinanti di violenza ingiustificata, inquietante e a volte gratuita. Per chi lì viveva, stando al racconto di Lilin, rappresentavano invece l’unico modo di soppravvivere, non lasciando corrompersi. E forse anche per questo che la storia narrata dal giovane autore assume i toni di un percorso alla cui fine Lilin appare come un sopravvissuto: «Del mio gruppo di amici da ragazzi, di oltre 46 persone, siamo rimasti solo in cinque». Così recentemente Lilin ha raccontato al collega Marco Nebiolo di Narcomafie, rimarcando la precipua volontà che il codice etico criminale aveva nel salvaguardare l’integrità umana, rispetto al facile richiamo del denaro cui in seguito molti degli stessi compagni di Lilin sono andati incontro. Un punto nodale che lo scrittore più volte ha sottolineato nel voler prendere le distanze con l’universo mafia, cui molto spesso la sua narrazione autobiografica è stata associata.  

Mentre le pagine scorrono, quasi trecentocinquanta, e si susseguono racconti, ricordi, omicidi, sangue, stupri, violenze non può passare inosservato come il ricordo di quell’età, si parla dei primi anni Novanta, sia  da un lato rievocata con la mentalità e la testa di un dodicenne e dall’altro ripensata e analizzata con gli occhi dell’attuale Nicolai Lilin. Al ragazzino dodicenne competono le rievocazioni, magari non precisissime di una vita al limite vissuto e vista dagli occhi di un preadolescente che in quelle regole, così invise e poco condivisibili allo sguardo occidentale, credeva fermamente. Al Nicolai Lilin, tatuatore in quel di Bra (Cuneo), sposato con una bimba di due anni viene demandato quello sguardo quasi disilluso verso un modo di vivere da non rimpiangere. La visione critica del Lilin odierno è capace di far riflettere sull’inutilità di un sistema di giustizia criminale che nel libro punisce il violentatore di una ragazzina che abitava con lo scrittore e i suoi amici nel quartiere di Fiume Basso a Bender:  «Era giusto punirli per quello che hanno fatto – gli ho detto – però punendoli non abbiamo aiutato Ksjusa. Quello che mi tortura è ancora il suo dolore, contro il quale tutta la nostra giustizia è stata inutile».  

Non si può prescindere da questi elementi che chiaramente emergono dalla narrazione; sarebbe dunque pretestuoso e poco florido azzerare da subito le potenzialità del romanzo aggrappandosi all’immoralità del contenuto, delle azioni dell’ “educazione criminale” siberiana. Ciò che rimane non è una mera affermazione di violenza, una esaltazione del crimine ma l’asfissia opprimente di una realtà geopolitica ai confini del mondo. Un dipinto a tinte forti e pur sfumato nel suo grigiore livido e confuso di un realtà a cavallo tra la fine di un grande colosso dittatoriale, l’Urss, e la nascita di un soggetto politico inconsistente e antidemocratico.

Difficile condividere la vita di un Lilin, per quanto codificata da una serie di regole morali non scritte, si tratta pur sempre di un violento e brutale rigetto di una situazione, esterna, politica e sociale, entro la quale un qualsiasi altro atteggiamento non avrebbe trovato sbocco. Per cui la dignità si deve pur mantenere, applicando alla violenza, al crimine, una legge morale che permetta di vivere in libertà e onestà.

Anche se poi si abbandona quella vità, quella dura realtà, vivendo nell’Occidente così diverso dalla Transnistria, dove il poliziotto, lo sbirro, lo Stato, non è il nemico numero uno, ma ufficialmenteil garante della democrazia di uno Stato che per quanto perfettibile esiste.  

Se di “caso editoriale” vogliamo parlare, che non sia dunque per collegarlo a famosi autori nostrani, o a tematiche in auge, in modo forzoso, ma per intelaiare una indiscutibilmente proficua analisi stilistica del romanzo. Il testo è stato scritto direttamente in lingua italiana da Lilin, e, fermi restando gli interventi della casa editrice, questo denota una ottima familiarità con la nostra lingua pur mantenendo una sorta di ingenuità linguistica, tipica del prodotto ancora grezzo e non passato in raffineria. Fondamentale per seguire il filo del discorso, affascinare il lettore e calarlo nella dura realtà della Transnistria, non rinunciando a quel tocco realistico decisamente crudo nel riportare le vicende dell’infanzia di Lilin e quel superbo realismo non solo come descrizione della realtà, ma come cura, gestazione e allevamento delle parole in modo da rendere quanto meno fruibili anche alcune, ovvie e normali, licenze stilistiche che sicuramente ruotano intorno alla resa su carta dei ricordi di un giovane ragazzo. 

Così  gli occhi del dodicenne Lilin, i tatuaggi che porta sul corpo e che pratica come lavoro, i ricordi del carcere minorile, della vita da soldato in Cecenia, del sangue nelle strade di Bender sono parte di un passato vissuto nella convizione di essere nella parte del giusto, credendo in una legge che rappresenteva l’unica goccia di umanità nell’abiezione circostante.  Senza rimpianti però.

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