Ambrosoli, l’eroe borghese trent’anni dopo
“Mi scusi,
signor Ambrosoli”: sono queste le parole – decisamente inusuali
visto il contesto – utilizzate dal killer italoamericano William Aricò,
un attimo prima di scaricare la sua 357 magnum all’indirizzo di Giorgio
Ambrosoli. È l’11 luglio del 1979, è da poco passata la mezzanotte
e l’avvocato Ambrosoli si trova improvvisamente e inaspettatamente
solo davanti alla morte, dopo avere passato le ultime ore della sua
vita in compagnia di alcuni amici, per assistere ad un match di pugilato
in televisione.
Sono passati
trent’anni da quel giorno e ancora oggi conserva intatta tutta la
sua freschezza e validità la lezione di vita offerta da quest’uomo
che non esitò, in nome e per conto di uno Stato titubante per non dire
colluso, a scontrarsi con il sistema mafioso e di corruttela costruito
da Michele Sindona.
Giorgio Ambrosoli
nasce il 17 ottobre del 1933 a Milano da una famiglia agiata, di estrazione
borghese; il padre, pur essendo avvocato, lavora in banca e l’educazione
che offre ai figli – Giorgio è il primogenito di tre – è fondata
su rigidi principi e una robusta fede cattolica. Durante il periodo
degli studi, Ambrosoli manifesta simpatia per la monarchia e quel riferimento
si consoliderà anni dopo in una cultura profondamente liberale. Una
cultura che, insieme alle radici cattoliche e borghesi, lo renderanno
sempre particolarmente diffidente nei confronti della politica, come
ben ci ricorda lo scrittore Corrado Stajano nel suo indimenticabile “Un eroe borghese” (Einaudi, Torino 1991): “La politica,
per lui, è ancora peggio dell’arte del possibile,
è solo l’arte dell’intrigo, dell’imbroglio, della sopraffazione.
La politica è la maledetta politica, i partiti sono i responsabili
della degradazione nazionale, nemici dell’interesse collettivo, sempre
dalla parte dell’interesse particolare, anche se inverecondo, anche
se contrario a ogni codice naturale, morale, penale. Uomo dello Stato
proverà su di sé che cosa significa avere nemiche le istituzioni e
alleati solo uomini anomali e senza potere”.
Laureatosi
in legge all’Università Statale, contrariamente all’idea del padre
che sogna per lui un futuro sicuro in banca, decide di dedicarsi anima
e corpo all’avvocatura e alla famiglia, che costruisce con Annalori,
conosciuta proprio ai tempi dell’Unione Monarchica e dalla quale avrà
tre figli di cui andrà sempre estremamente fiero. Anche dal punto di
vista professionale, i motivi di soddisfazione non mancano; specializzatosi
in diritto fallimentare, trova un primo serio impegno nella gestione
del fallimento della Società Finanziaria Italiana, in capo alla quale
si registra un crack di settanta miliardi.
È questo il
banco di prova per l’avvocato milanese che, il 24 settembre 1974,
viene chiamato dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido
Carli, per fare luce sui castelli di carte e di inganni messi in piedi
da Michele Sindona: appare fin da subito chiaro che il finanziere siciliano
si è mosso certo dell’impunità e andando avanti Ambrosoli si convincerà
sempre di più dell’ampia libertà di manovra concessa dal sistema.
Grazie alle carte che riesce a collazionare e alle irregolarità e falsità
che scopre di giorno in giorno, Ambrosoli risale ai legami che Sindona
ha con la politica (Andreotti, Piccoli, Fanfani), la Chiesa (Marcinkus
e lo Ior), la massoneria (Gelli e la P2), la finanza (Cuccia), per finire
con la magistratura e la mafia siciliana.
Del resto la
complessità diabolica di un intreccio tra politica, finanza, massoneria
e criminalità mafiosa appare evidente ad Ambrosoli fin da subito, come
ben si coglie dalla lettera indirizzata alla moglie, scritta a pochi
mesi dall’incarico di commissario liquidatore della Banca Privata
Italiana e trovata per caso dalla donna, all’insaputa del marito:
“E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò
a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi
non mi lamento affatto perché per me
è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese (…)
A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato
e non per un partito”. Quella lettera, un testamento nei fatti,
ha i toni accorati di un forte impegno civile, è una pagina di etica
della professione che andrebbe imparata a memoria nelle scuole. Nelle
parole di Ambrosoli1 si coglie una profondità di riferimenti
valoriali che oggi più che mai mancano al nostro Paese, si percepisce
l’orgoglio di chi si sente servitore dello Stato, ma non per questo
affatto sminuito, anzi pronto piuttosto a sacrificarsi per il bene comune
senza ambire a risultati
A nulla valgono
le pressioni e finanche i tentativi di avvicinarlo e di corromperlo
che Sindona mette in atto, per evitare strascichi in ambito civile e
penale. I cinque anni che vedono Ambrosoli alla guida della Banca Privata
Italiana sono costellati di difficoltà e ostacoli frapposti alla sua
azione anche da ambienti istituzionali e politici. Sono gli anni in
cui Sindona viene celebrato come il “salvatore della lira”
da Giulio Andreotti e in un contesto di isolamento, l’avvocato milanese
può contare solo sull’apporto generoso del maresciallo Silvio Novembre,
un finanziere tutto d’un pezzo. Un isolamento che si ampia a dismisura,
quando anche i vertici della Banca d’Italia, nelle persone di Paolo
Baffi e Mario Sarcinelli, vengono colpiti da un’inchiesta giudiziaria
dai contorni poco chiari ancora oggi, in realtà tolti di mezzo per
privare Ambrosoli di ogni appoggio.
Le pressioni
si fanno più pesanti fino a sfociare in minacce vere e proprie
alla sua incolumità e a quella dei suoi cari, ma nonostante tutto Ambrosoli,
ben cosciente dei rischi che corre, chiude il procedimento di liquidazione,
dopo cinque anni di duro lavoro. L’avvocato impedisce così il salvataggio
dell’istituto richiesto da più parti a nome di Sindona, ma soprattutto
getta le basi perché venga riconosciuta la piena responsabilità di
Sindona in sede penale e civile. Negli stessi mesi l’intransigente
commissario liquidatore collabora con la magistratura statunitense e
con l’FBI per il crack negli Stati Uniti di un’altra banca controllata
da Sindona, la Franklin National Bank e, proprio il giorno prima del
suo assassinio, depone come testimone nell’ambito di una rogatoria
internazionale, eseguita presso il Palazzo di Giustizia di Milano alla
presenza delle autorità americane. Una deposizione che avrebbe dovuto
sottoscrivere il 12 luglio, ma che non arriverà mai a firmare, bloccato
dalle pallottole del killer mafioso.
Per l’omicidio
Ambrosoli vengono condannati all’ergastolo Michele Sindona e Robert
Venetucci, un mafioso italoamericano coinvolto nel traffico di stupefacenti.
Sindona muore in carcere a Voghera, dopo aver ingerito un caffè contenente
cianuro. Ancora oggi non è chiaro se sia stato messo a tacere oppure
se la morte sia stata l’epilogo di un tentativo di suicidio, che lo
avrebbe dovuto portare fuori dal carcere.
Giorgio Ambrosoli
venne lasciato solo anche il giorno del suo funerale. Nessuna autorità,
nessun rappresentante di quello Stato per il quale l’avvocato milanese
si era speso con coraggio, fino all’estremo sacrificio.
Oggi le vicende
di quegli anni sono raccolte in un bel libro scritto dal figlio di Giorgio
Ambrosoli, Umberto. Il titolo è tratto proprio da quella lettera
testamento lasciata dal padre “Qualunque cosa succeda” (Sironi
Editore, Milano 2009). Una testimonianza di prima mano, con particolari
inediti: “Toccare con mano la disinvoltura con la quale lo Ior
ha operato insieme a Sindona genera in papà
una sorta di imbarazzo, quasi una crisi della dimensione spirituale.
Ma per noi tre continua a volere una formazione religiosa”.
L’esempio
di Ambrosoli è ancora vivo dopo trent’anni, soprattutto perché la
situazione del nostro Paese non sembra essere cambiata. La corruzione,
dopo gli anni di Mani Pulite, non ha mai allentato la presa sulla società
e sull’economia e la certezza della pena per quanti si macchiano di
crimini in ambito economico e finanziario resta una petizione di principio.
Ricordare Ambrosoli significa consegnare il ricordo di un uomo dello
Stato a quanti non l’hanno conosciuto, nella speranza che il suo impegno
possa trovare altre gambe su cui camminare.
[1] Anna carissima,
è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato
passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana n.d. r.) atto che ovviamente non
soddisfarà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché
non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che
faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni
colore e risma non tranquillizza affatto. E’ indubbio che, in ogni caso,
pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi
non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare
qualcosa per il paese.
Ricordi i giorni dell’Umi (Unione Monarchica Italiana
n.d.r.) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i
partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello
Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e
discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo
nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli
che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti
perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione,
anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi
dopo.
I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di
farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia
di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda,
comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai
tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi
abbiamo creduto [… ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso
la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia
o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava
e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro.. Sarà per te una vita dura, ma
sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il
tuo dovere costi quello che costi (…)
Giorgio
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