Palermo. Condannato Giuseppe Montalbano volto imprenditoriale e di sinistra e di cosa nostra
Questa storia inizia come un romanzo, con tre colpi di fucile, sparati nella notte tra il l 3 e il 4 marzo del 1861. A Santa Margherita Belice, il paese di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quella notte venne ucciso Giuseppe Montalbano, medico chirurgo e garibaldino della prima ora. Voleva che le terre di un feudo venissero distribuite ai contadini. Ma fermiamoci un attimo. C’è un altro possibile inizio. Giuseppe Montalbano, l’orfano del garibaldino sposa la figlia di uno dei mandanti dell’omicidio del padre. Un fratello del padre, sacerdote, lo scongiurò di non farlo, lo maledisse perfino, ma non ci fu verso. Ma anche questo potrebbe non essere l’inizio di questa storia. Forse comincia tutto nella notte fra il 22 e il 23 agosto del 1948. A Palermo scompare Giuseppe Ruggero (e non sarà mai ritrovato «Lupara bianca», si dice),figliastro di un parlamentare regionale comunista e amico di Renato Guttuso e Andrea Camilleri. Il parlamentare ha un nome che abbiamo già sentito. Anch’egli si chiama Giuseppe Montalbano: quel garibaldino assassinato nel 1861, infatti, era suo nonno. Il parlamentare comunista indicò, come responsabili della scomparsa, alcuni elementi del separatismo siciliano. Gli stessi che un anno prima, insieme a Salvatore Giuliano, avevano compiuto l’eccidio di Portella della Ginestra. “Di fronte alla scomparsa di mio figlio il partito mi ha lasciato solo” scriverà più tardi a Palmiro Togliatti. Il fatto è, sosterrà, che il PCI non voleva accusare i separatisti, perché con alcuni di essi c’era da stringere un’alleanza elettorale”. Dopo la scomparsa del fratellastro, Giuseppe Montalbano (che poi diventerà ingegnere) allora quattordicenne, fu mandato dal padre nel Lazio. Da Giuseppe Ruggiero, i Montalbano ereditarono 70 milioni dell’epoca.
Un passo indietro
Fermiamoci ancora e facciamo un altro salto temporale perchè forse non è neanche questo l’inizio. Forse sarebbe meglio partire da una data ben precisa: il 10 aprile 1984. Quel giorno a Giovanni Falcone i carabinieri di Palermo del nucleo operativo, prima sezione, comandati dal capitano Angiolo Pellegrino consegnano un rapporto giudiziario dal titolo Carmelo Gariffo+29. Un dossier corposo dove all’interno ci sono due nomi importanti della politica e dell’imprenditoria siciliana: Giuseppe Montalbano padre e Giuseppe Montalbano figlio. Si legge nel dossier: “Montalbano padre e figlio fanno parte di un’associazione di tipo mafioso, per essersi avvalsi della forza dell’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne derivava, per acquisire in modo diretto e indiretto la gestione e il controllo di numerose attività economiche e in particolare di numerose società, appalti e servizi pubblici e ciò al fine di realizzare profitti e vantaggi ingiusti per se e per gli altri con le aggravanti di aver finanziato le attività economiche di cui sopra con il prodotto e il profitto di delitti e segnatamente del traffico di sostanze stupefacenti”.
L’inchiesta
Scatta l’inchiesta e Falcone scopre che, in mano all’ingegnere, sono finite le quote dell’Arezzo costruzioni detenute da Saveria Benedetta Palazzolo, la donna che qualche anno prima dell’arresto di Provenzano diventerà sua moglie dopo quasi tre decenni di convivenza. L’inchiesta di Falcone, però, nel 1987 viene archiviata. Ma vediamo adesso nel dettaglio chi è Giuseppe Montalbano, l’uomo che da oltre sessant’anni si divide tra mafia, salotti buoni e fervide relazioni politiche. Nato nel 1925 a Sciacca in provincia di Agrigento, aderisce giovanissimo al Partito Comunista. Nel 1943 fa parte del Comitato Nazionale di Liberazione antifascista costituitosi il 24 giugno. Nel 1944 partecipa al primo congresso istitutivo della Federazione Giovanile Comunista e viene eletto nella segreteria provinciale di Agrigento assieme a Francesco Renda e Stefano Gullo. Nel 1945 viene eletto membro del Comitato Federale. tra il 1947 e il 1970 aderisce alle grandi lotte sociali per il lavoro, l’occupazione, le pensioni, e con altri dirigenti politici e sindacali partecipa all’occupazione dei feudi incolti ed abbandonati dagli agrari. Una vita divisa tra affari e politica. Nel 1991 muore il padre Giuseppe Montalbano e da quel momento per Giuseppe Montalbano figlio, iniziano nuovi e più pesanti guai giudiziari. Infatti dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, dove morirono i giudici Falcone e Borsellino con tutti gli uomini della scorta, si stringe il cerchio attorno a Totò Riina detto u curtu. I carabinieri del Capitano Sergio De Caprio, più famoso come Ultimo, il 15 gennaio del 1993 vedono uscire da una villa in via Bernini a Palermo una macchina. All’interno c’è Riina. Il suo autista ha appena il tempo di percorrere qualche centinaio di metri che viene bloccato dai carabinieri. Dopo oltre venticinque anni il capo dei capi finisce in carcere.
Le indagini
A questo punto iniziano le indagini per capire di chi fosse il covo dove ‘u curtu ha passato l’ultima parte della sua latitanza. Si scopre che la villa appartiene a Giuseppe Montalbano. Lui si è sempre difeso sostenendo di non aver mai favorito Riina perché non sapeva che la persona a cui aveva affittato gli alloggi di via Bernini in realtà fosse il boss mafioso Riina che si nascondeva sotto false generalità. Non la pensa così la direzione distrettuale antimafia di Palermo secondo cui l’ultimo rifugio “con piscina” in cui Totò Riina passò la sua dorata latitanza era proprio una villa di proprietà dell’ingegner Montalbano. Sei anni dopo, il 27 gennaio 1999 a Palermo è in corso un’altra grossa operazione antimafia. In carcere finisce il capo mafia di Sciacca Salvatore Di Gangi. Non si trovava all’estero o in un casolare di campagna. Viveva in un appartamento nel cuore di Palermo appena dietro Piazza Politeama. Insieme a lui viene arrestato anche un ingegnere. E dal momento che questa storia sembra un romanzo, nessuno dovrà stupirsi se l’ingegnere risponde al nome di Giuseppe Montalbano. Il figlio dell’onorevole comunista, nonché bisnipote dell’eroe del Risorgimento, è accusato di essere affiliato a Cosa nostra e di aver favorito la latitanza di Totò Riina e di salvatore Di Gangi a cui Montalbano aveva affittato la casa di Piazza Politeama. Insomma Montalbano non è stato solo il padrone di casa di Totò Riina, ma anche del capo degli “agrigentini” Salvatore Di Ganci. In seguito i magistrati annulleranno l’ordine di custodia cautelare. Ma ormai le indagini sono partite e parallelamente scattano anche le indagini patrimoniali.
21 settembre 2001
Si arriva così al 21 settembre 2001. Il giudice agrigentino, Salvatore Cardinale dispone il sequestro di molti beni dell’ingegnere e della sua famiglia. Finiscono nel mirino 10 società, 185 appartamenti intestati a lui per un valore di 200 milioni di euro, il complesso turistico “Torre Makauda” e la Villa di via Bernini, il cui contratto di affitto fu stipulato da una delle società di Montalbano, la Villa Antica, fondata negli anni ’70 con un milione di capitale sociale che non ha mai utilizzato gestendo solo la villa del capo dei capi e un appartamento di viale delle Alpi e che tuttavia è stata costantemente ricapitalizzata fino a portarla a quasi un milione di euro. Nel provvedimento di sequestro, inoltre, si torna a parlare dell’Arezzo Costruzioni per la vendita all’Ariete di un capannone industriale in via La Malfa, a Palermo. All’Ariete erano interessati Giuseppe Cangialosi e Giuseppe Carioti, considerati prestanome di Riina. Anche l’azienda agricola La Montagnola che è proprietaria della residenza di Montalbano è finita sotto osservazione, perché da lì passa un rapporto con la Figeroma, già partecipata dai cugini Salvo e dal consuocero di Vito Ciancimino, Agostino Catalano. Nel provvedimento di sequestro, grazie alle dichiarazioni di una dipendente di Montalbano, Sonia Fontana, figlia di Angelo, già socio di Simone Castello, considerato il postino di Bernardo Provenzano(Sonia Fontana era stata sentita come testimone dopo l’arresto di Montalbano) vengono fuori anche i rapporti tra la sua famiglia e l’ex presidente della Regione Sicilia e attualmente deputato del Partito Democratico, Angelo Capodicasa. La madre di Sonia Fontana, Stella Capizzi ha, infatti, lavorato nell’ufficio regionale di Capodicasa all’epoca in cui era Presidente della Regione. E sempre Sonia Fontana rivela che Montalbano conosceva Capodicasa. Montalbano cerniera tra il mondo dei colletti bianchi, della politica e l’universo delle imprese vicine a Cosa nostra o considerate diretta emanazione dell’organizzazione. Nelle sue società compare anche il nome di Antonino Stagno, figlio del proprietario dell’omonima clinica che in realtà è suo genero. Rapporti d’affari assolutamente leciti, rilevano magistrati e investigatori, che tuttavia la dicono lunga sulla rete di relazioni intessuta a partire dal 1984 dall’ingegnere.
Affari dopo affari
Ma il tour continua. Una delle società sequestrate dal giudice Cardinale, l’Icit, ha avuto lavori per miliardi anche nell’edilizia pubblica. “I ripetuti aumenti di capitale sociale all’interno delle società – aveva scritto il giudice nell’ordinanza di sequestro – avvengono senza che la proprietà dei titoli azionari esca dal controllo della famiglia Montalbano, il cui patrimonio subisce, a causa dell’anomalo afflusso di denaro in favore della società, un aumento esponenziale”. Nel corso della sua lunga carriera Montalbano si è trovato anche al fianco di Pino Lipari, il geometra dell’Anas, indicato come il cervello economico degli affari edilizi di Cosa nostra. Nel 2005 la sezione misure di prevenzione della Corte d’appello di Palermo restituisce ai proprietari una parte dei beni che erano stati sequestrati e confisca, invece, la villa di via Bernini, covo di Riina. Rimane, comunque, il giudizio del giudice Cardinale: “l’ingegnere Montalbano (il volto imprenditoriale e di sinistra di Cosa Nostra)non è altro che il prestanome di Totò Riina”. Insomma nella figura di Montalbano, da sempre legato al PCI-PDS-DS, trova un punto d’incrocio quell’intreccio di politica e affari che è una versione siciliana del compromesso storico. E sempre nel provvedimento di confisca firmato dal giudice Cardinale, in un passaggio sui rapporti dell’ingegnere con «l’associato mafioso» Pino Lipari, si legge: «A causa di tali rapporti già nel 1984 il Montalbano e il genitore professor Giuseppe Montalbano avevano ricevuto una comunicazione giudiziaria quali indagati di associazione mafiosa». Ma gli elementi indiziari che riguardano l’ingegnere Montalbano vengono anche riportati dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio che indica Giuseppe Montalbano come “prestanome” del patrimonio di Riina e, indirettamente, conferma la tesi del giudice Cardinale. Per dovere di cronaca anche questa inchiesta fu archiviata. Le indagini, però, sul concorso esterno per associazione mafiosa per aver favorito la latitanza di Riina e Di Ganci sono andate avanti lo stesso.
Il processo
Così il 23 febbraio del 2004 per Giuseppe Montalbano arriva la prima condanna in assoluto dopo anni di indagini iniziate e poi archiviate e anche un’assoluzione. L’ingegnere, infatti, viene condannato dal tribunale di Sciacca, presieduto da Enzo Agate a sette anni e sei mesi di reclusione. La pubblica accusa, rappresentata dal sostituto Francesco Marinaro e dal procuratore aggiunto presso la Dda di Palermo Anna Maria Palma, aveva chiesto nei confronti di Montalbano la condanna a 13 anni di reclusione, sostenendo anche che l’ imprenditore aveva favorito la latitanza dell’ ex capofamiglia di Sciacca Salvatore Di Gangi. Da quest’ ultima accusa Montalbano è stato però assolto. Ma la storia non finisce qui. Esattamente cinque anni dopo, il 29 aprile 2009, a Giuseppe Montalbano, che dice di essere di sinistra, ma che nel primo processo era assistito legalmente dall’amico avvocato Girolamo Bongiorno, papà dell’attuale onorevole Giulia, militante in Alleanza Nazionale e genero del giudice Barcellona della Sezione Fallimentare, e che era in affari con l’imprenditore Merra, genero dell’onorevole forzista Miccichè, la quarta sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta da Rosario Luzio, conferma la condanna a sette anni e sei mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto, invece, l’altro imputato del processo, Antonino Fauci, ex capo della vigilanza del complesso turistico Torre Makauda. Il Procuratore Generale, Dino Cerami, in realtà, aveva chiesto in appello l’aggravamento della condanna a nove anni nei confronti di Montalbano, ritenendolo colpevole di associazione mafiosa piena, mentre i nuovi avvocati dell’ingegnere, Marcello Consiglio e Alberto Polizzi, ne avevano proposto l’assoluzione. La contraddizione della vita e della storia sembra scorrere nel sangue dell’ingegner Montalbano: il suo bisnonno paterno era un “picciotto”, un eroe del Risorgimento, quello materno uno dei suoi assassini; il suo fratellastro scomparve per mano della mafia, lui viene condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Insomma faceva affari con Provenzano e ospitava Riina. Ma poi aveva un nome e un portafogli che gli consentivano relazioni da salotto buono. Rimane l’impressione, da questi episodi, che il centro-sinistra facesse affari in Sicilia e troppe domande a Roma. La vita di Montalbano mette in evidenza quello che per alcuni deve essere stato un difficile compromesso, una specie di real-politik, che ha consentito a molti di sopravvivere e ad alcuni di prosperare, un compromesso che ha sacrificato sull’altare del realismo e degli affari ogni questione morale.
fonte: accadeinitalia.it
Trackback dal tuo sito.