Golem, i risvolti dell’operazione
I mafiosi in carcere non stanno a guardare. Se la mafia trapanese e quella palermitana hanno cercato un possibile accordo, lo è stato percè i detenuti capi mafia hanno voluto così. E il lato clamoroso di questo aspetto dell’indagine è quello che i mafiosi detenuti, anche in carceri lontani dalla Sicilia, hanno potuto colloquiare con quelli liberi e latitanti. Così nell’ambito dell’operazione “Golem”, sono state eseguite perquisizioni anche in 15 istituti penitenziari. I controlli, spiegano gli inquirenti, sono scattati per “rendere inefficace la vasta rete di protezione e comunicazione tra gli affiliati a Cosa nostra trapanese in atto detenuti e quelli in libertà, per la trasmissione di direttive, la gestione di attività illecite e di patrimoni fittiziamente intestati”. Le perquisizioni sono state eseguite in carceri della Lombardia, del Piemonte, del Friuli Venezia Giulia, del Lazio, dell’Umbria, dell’Abruzzo, della Campania, della Calabria e della Sicilia. Complessivamente sono state portate a termine 37 perquisizioni nei confronti di altrettanti detenuti «ritenuti strettamente legati a Messina Denaro». «Le perquisizioni – spiegano gli investigatori – hanno, finora,consentito di acquisire numerosa ocumentazione, già al vaglio degli inquirenti che stanno valutando la possibilità di disporre l’immediato trasferimento di alcuni dei soggetti perquisiti in Istituti Penitenziari diversi».
Gli avvisi di garanzia. La Dda di Palermo nell’ambito dell’indagine ha emesso diciotto avvisi di garanzia. Tra gli indagati ci sono anche un funzionario regionale, Girolamo Coppola, Achille Felli, finanziere in pensione, che collabora nella segreteria politica di Carlo Vizzini, senatore del Pdl. Felli è accusato di favoreggiamento aggravato. Gli inquirenti, nel corso dell’indagine, hanno scoperto che Felli aveva “rapporti confidenziali con personaggi vicini a Cosa nostra”. Ci sono anche due noti commercianti di abbigliamento palermitani tra gli avvisati: gli indagati sono Massimo e Piero Niceta.
Secondo gli investigatori i due sarebbero prestanome di Filippo Guttadauro, boss di Brancaccio, oggi in carcere, nonchè cognato del capomafia Messina Denaro. I due avrebbero dato la loro disponibilità a intestarsi un negozio di gioielli e uno di vestiti all’interno del centro commerciale Belicittà a Castelvetrano, città natale di Messina Denaro. Ma il gestore di fatto, cioè il finanziatore sarebbe stato invece Filippo Guttadauro. Ieri notte sono state perquisite le abitazioni dei due fratelli Niceta.
Il falsario. Tra i personaggi di maggiore rilievo finiti in manette c’è invece Domenico Nardo, romano di 50 anni, titolare della World protection, un’agenzia che offre guardie del corpo a starlet del cinema e a veline, è il padre di Alessandra Nardo, la showgirl ventiquattrenne che fino a un anno fa era fidanzata con l’attore comico Andrea Roncato. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Domenico Nardo, detto «Mimmo» sarebbe uno degli “uomini di fiducia” del boss Messina Denaro. L’attività svolta nei confronti della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara ha consentito agli inquirenti di individuare nel pregiudicato romano Nardo «la persona alla quale Messina Denaro si è affidato per la falsificazione dei suoi documenti d’identità». L’uomo, sebbene condannato per aver favorito, nel 1996, la latitanza del killer campobellese Raffaele Urso, grazie al fatto di risiedere a Roma «ha, negli anni, proseguito nell’attività di sostegno riservatissimo alle attività criminali della famiglia mafiosa di Campobello – spiegano i magistrati – e, soprattutto, ai latitanti di quell’area».
«È stato possibile ricostruire, infatti, come Nardo – dicono gli investigatori – non solo sia stato il tipografo di Messina Denaro, ma abbia anche fornito documenti falsi ad altri soggetti, tra cui l’altro killer campobellese Vincenzo Spezia che, nel 1995, proprio grazie ad un passaporto falso fornito da Nardo, si era potuto rifugiare in Venezuela». Non solo. «Nardo, nell’estate del 2008, aveva partecipato ad un vero e proprio summit mafioso con il boss Leonardo Bonafede – dicono ancora gli inquirenti – nel corso del quale erano stati affrontati diversi argomenti, tra cui alcuni favorì da realizzare nell’interesse di Messina Denaro, più volte rimandato nel tentativo, rilevatosi vano, di evitare che le Forze di Polizia ne potessero avere contezza».Secondo quanto hanno ricostruito gli investigatori, a Roma Nardo «era attivo nello spaccio di droga» e gli agenti della Squadra Mobile capitolina hanno effettuato anche una serie di perquisizioni nei confronti di vari affiliati, tra cui una donna, Marinella Flore. di 58 anni, ex militante della colonna sarda delle brigate rosse ed in carcere legatasi sentimentalmente a Salvatore Madonia. Tra le persone sottoposte a perquisizione, anche F.S., di 54 anni, che nei mesi scorsi era stato destinatario a Roma di una misura di prevenzione, e A.B., di 58 anni, in passato considerato l’uomo che avrebbe occultato l’esplosivo degli attentati di via Palestro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze e di piazza Duomo a Milano. Nel corso dell’operazione è stato arrestato in flagranza di reato anche Mauro Fratini, di 45 anni, nella cui abitazione è stata sequestrata hashish ed un bilancino di precisione.
I pizzini. Uno è stato allegato alla misura cautelare firmata dal gip Riccardo Ricciardi. «Non andrò mai via di mia volontà, ho un codice d’onore da rispettare. Lo devo a Papà e lo devo ai miei principi, lo devo a tanti amici che sono rinchiusi e che hanno ancora bisogno, lo devo a me stesso per tutto quello in cui ho creduto e per tutto quello che sono stato». A parlare (a scrivere per la verità) è il boss mafioso latitante Matteo Messina Denaro, in un “pizzino” ritrovato tempo fa. «Ad onore del vero – scrive il boss – se avessi voluto già me ne sarei andato da tempo, ne avevo la possibilità, solo che non ho mai tenuto in considerazione quest’ipotesi perchè non fa parte di me ciò; io starò nella mia terra fino a quando il destino lo vorrà e sarò sempre disponibile per i miei amici, è il mio modo tacito di dire a loro che non hanno sbagliato a credere in me».
Le dichiarazioni. «L’operazione odierna fa parte della strategia per catturare Matteo Messina Denaro attraverso il prosciugamento del suo bacino». Lo ha detto il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo. «Messina Denaro – ha aggiunto – è a capo di Cosa Nostra trapanese e frequenti sono stati i suoi tentativi di penetrare verso Palermo». Il procuratore ha sottolineato che «l’operazione ha colpito soggetti che si rapportano con Matteo Messina Denaro» e che «hanno scambi di favori con i Lo Piccolo». Messineo ha poi evidenziato che, anche in questo caso, particolare attenzione è stata prestata all’intestazione fittizia di beni: «togliere i beni ai mafiosi – ha osservato – è per noi un potente mezzo per arrivare al risultato finale».
Il procuratore aggiunto, Teresa Principato, ha parlato di una «Cosa Nostra trapanese connotata da aspetti tradizionali, una Cosa Nostra ortodossa: si caratterizza per l’appartenenza degli affiliati fino alla morte e questo consente all’esercito mafioso di mantenere inalterata la propria pericolosità». Il procuratore aggiunto ha poi rimarcato «la capacità gestionale anche durante e dopo la detenzione dei soggetti mafiosi trapanesi: il carcere non costituisce remora; all’uscita tornano ad assumere ruoli di primo piano».
L’arresto di Filippo Guttadauro, fratello del capomafia del mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e cognato di Matteo Messina Denaro, nel luglio 2006, «ha temporaneamente interrotto le comunicazioni tra i vertici palermitani e trapanesi di Cosa Nostra». Lo ha affermato Antonino De Santis vice dirigente della Mobile di Palermo, alla conferenza stampa dell’operazione antimafia Golem. «Un rapporto – ha aggiunto – che tuttavia è stato ri
cucito in un summit a cui hanno partecipato molti degli odierni arrestati, nonchè uomini dei Lo Piccolo». Il summit sarebbe avvenuto dopo la cattura di Bernardo Provenzano. «Nella corrispondenza tra Messina Denaro e Lo Piccolo – ha concluso – si parla anche di vacanze di alcuni personaggi di Cosa Nostra palermitana, trascorse per alcuni periodi nel trapanese», a dimostrazione dei fitti rapporti tra Messina Denaro ed i Lo Piccolo.
«Nel trapanese l’imprenditore finisce per diventare sistema, impresa mafiosa. Chi non accetta viene vessato con richieste materialmente non sostenibili». Lo ha detto il capo della Mobile di Trapani, Giuseppe Linares, durante la conferenza stampa dell’operazione Golem. «Cosa Nostra – ha aggiunto – è consapevole che l’estorsione
è impopolare, ecco perchè preferisce convincere l’imprenditore a stringere affari con la famiglia, piuttosto che chiedergli il pizzo. Ma quando questi si rifiuta, la pressione diventa insostenibile». L’operazione ha permesso di appurare che Cosa nostra trapanese è interessata anche al comparto olivicolo. «Stiamo cercando di comprendere – ha spiegato Linares – in che modo la mafia si sta inserendo nel settore». In questi ultimi due anni il prezzo dell’olio nella zona del trapanese è stato il più basso di tutti i tempi ed il comparto è in forte crisi. L’operazione è un primo momento di approfondimento, foriero di ulteriori analisi di sfondamento sulle filiere interne». Secondo Linares, «Messina Denaro ha realizzato un sistema di comunicazioni estremamente impermeabile. E lo ha fatto così- spiega – perché si è reso conto degli errori altrui, come i Lo Piccolo. Per questo ha scelto soggetti che avevano un ruolo della società. Questa di oggi – continua Linares – è la filiera esterna del latitante, soggetti cioè che portavano le direttive fra i mandamenti di Palermo e Trapani, e fra i vari altri mandamenti della provincia di Trapani della quale Messina Denaro è il rappresentante provinciale». Dopo aver ricordato che l’operazione di oggi è il primo «calcio» dopo 11 anni alla mafia di Castelvetrano, Linares ricorda come Matteo Messina Denaro, già «nel 2005 aveva capito che la sua struttura di protezione doveva essere rinnovata. E dal 2007 l’ha rinnovata grazie alle scarcerazioni e alle famiglie mafiose della Valle del Belice. E ha reso tutto impermeabile: era riservata anche la natura del pizzinaro».
Linares, parlando del racket delle estorsioni spiega come nel trapanese, rispetto a Palermo «il pizzo è più radicale: o ci si allinea, e si entra a far parte dell’organizzazione, o non ci si allinea e si subiscono richieste che strozzano l’imprenditore. Il pizzo – ribadisce – qui ha un duplice valore, non lo pagano tutti, perchè o non hanno ricevuto ancora la richiesta o perchè sono organici. A Trapani c’è un mafia imprenditoriale, salottiera, e chi non si allinea va in anoressia. A Palermo l’imprenditore – spiega Linares – viene mantenuto in vita con richieste di piccole sommo ma costanti e ciò ha portato la mafia a perdere il consenso. Qui a Trapani, è una mafia antica, è sempre la stessa, rispetta l’ortodossia mafiosa. E qui, purtroppo, funziona benissimo perchè c’è un humus che vede soggetti compatibili con questo contesto».
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