Le due guerre
Dopo la fine del conflitto
mondiale, nessun altro fenomeno ha attraversato con la stessa virulenza
la seconda metà del secolo scorso, attaccando sanguinosamente la sovranità
dello Stato e le fondamenta stesse della democrazia, come il terrorismo
e la mafia. Due guerre, combattute dalla Repubblica, ma dall’esito
ben diverso: l’ isolamento e la sconfitta del primo nemico, la continuazione
e lo sviluppo del secondo, fino a scavalcare la soglia del nuovo secolo
con eguale e forse superiore aggressività, ciò che equivale di fatto,
almeno fino ai nostri giorni, alla sconfitta dello Stato. Come e perché
tutto questo è potuto accadere? Gian Carlo Caselli cerca una risposta,
in un libro straordinario che è insieme la memoria storica e direttamente
vissuta di un protagonista dei due conflitti, la testimonianza di una
vita spesa ai confini più esposti della Giustizia, la denuncia di un
uomo che vede frustrati o sviliti i principi etici del proprio impegno
civile da parte dello stesso Stato in nome del quale combatte.
“Le due guerre” è un documento
affascinante e duro, al di là dello stile elegante e discreto, quasi
felpato, con il quale Gian Carlo Caselli descrive i fatti nella
loro nuda, inattaccabile essenza, senza personalismi, né un’ombra
di retorica, né forzature di analisi interpretative. Uno stile che
penso sia lo specchio del suo carattere e della sua formazione, insieme
cristiana e profondamente piemontese, protesa alla ricerca della
verità e sensibile ai richiami della coscienza, dove i doveri sono
l’altra faccia dei diritti, ma devono sempre rispettare uomini e cose.
Anche quando sono dall’altra parte della trincea.
Non c’è niente nel libro
sulla sua vita e sulla sua formazione umana prima di quel fatidico 1974,
quando la Corte di Cassazione affida alla magistratura di Torino e quindi
al giovane giudice istruttore Caselli le indagini sui sequestri da parte
delle Brigate Rosse del sindacalista Labate e del giudice Sossi. Da
quel momento diviene per oltre 10 anni il giudice delle Brigate Rosse
e cambia la sua vita, ormai inesorabilmente “blindata”. Come lo
sarà, in una diversa dimensione e in un altro quadro esistenziale,
dopo la sua scelta di andare volontariamente a Palermo, insanguinata
dalle stragi del 1992 in cui furono uccisi con le loro scorte i giudici
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due amici prima ancora che compagni
di battaglia, per i quali si era speso nel corso dei lunghi attacchi,
infarciti di calunnie, gelosie, diffamazioni, ai quali erano stati sottoposti
negli anni precedenti. Amici come Emilio Alessandrini e Guido Galli,
i due magistrati milanesi assassinati dai terroristi di Prima Linea
fra il 1979 e l’80. In quel racconto scabro fatto di eventi, non sono
pochi i tratti di umanità, gli scorci di caratteri conosciuti o intuiti
nei lunghi interrogatori dei pentiti e degli irriducibili, nelle carceri
come nelle aule dei tribunali, insieme con il ricordo dei tanti collaboratori,
di colleghi, di investigatori caduti. Un ricordo rapido, ma attento,
a volte commosso, mai banale o retorico, dedicato con eguale intensità
a figure prestigiose di vittime come il procuratore Bruno Caccia e il
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e a meno noti servitori dello Stato
come i marescialli Maritano e Berardi o il giovane poliziotto Antonio
Esposito. O agli agenti delle scorte, diventati compagni fedeli e instancabili,
verso i quali Caselli sente di avere un grande debito, non solo per
avergli più volte salvato la vita.
Le tappe della guerra vinta
contro il terrorismo si snodano una dietro l’altra, fino al drammatico
pentimento di Patrizio Peci, del quale Caselli narra dettagli impressionanti
e inediti, ma non priva di oscure vicende ben ricostruite, come la feroce
ostilità dimostrata e mantenuta da Francesco Cossiga.
E vengono poi le complesse
vicende a Palermo, di quella nuova guerra affrontata con straordinaria
passione e competenza, ricalcando l’esperienza del pool di Falcone
e Borsellino, ma affrontando il nemico senza avere le spalle coperte,
anzi subendo – esattamente come era avvenuto per i due giudici assassinati
– ostilità, invidie, diffidenze e una sottile, ma esplicita ostilità
che esplode non appena, dopo un’impressionante serie di successi sul
piano repressivo e giudiziario, la Procura da lui diretta comincia ad
incidere nel cosiddetto “terzo livello”, quello del potere politico,
degli apparati deviati dello Stato, delle centrali occulte degli affari
e delle complicità insospettabili. “La procura, nonostante alcuni
“amichevoli” inviti, non intendeva dimenticare che la legge è uguale
per tutti – scrive – e che l’azione penale è obbligatoria. Per
cui, se ricorrevano i presupposti per intervenire in fatto e in diritto
– si trattasse di Totò Riina o Giulio Andreotti – non si poteva
fare differenza. Imparammo che la differenza c’è. Finchè indaghi
su Riina vai bene. Ma quando passi a occuparti (facendo il tuo dovere)
anche di imputati “eccellenti”, cominciano i guai. Qualcuno ti mette
i bastoni fra le ruote. Preferisce – ribadisco – perdere una guerra
che si poteva vincere pur di evitare che si accertino le responsabilità
del “terzo livello”…E venne il processo Andreotti e la pazzesca
strumentalizzazione mediatica che fu programmata ed eseguita dopo la
sentenza, ignorando le documentate accuse contenute nel definitivo giudizio
della Cassazione, su un Andreotti pesantemente colluso con il sistema
mafioso fino al 1980, salvato solo per la prescrizione di gravissimi
reati. Siamo nell’era di “Porta a Porta”, del berlusconismo imperante
su un’informazione troppo spesso asservita, ormai schiava del mercato
e in gran parte dei poteri, alla quale Caselli dedica taglienti analisi.
E’ la storia di una sconfitta
, come scrive Marco Travaglio in una sua bella postfazione al libro?
Sembra proprio di sì, anche
alla luce di recentissime vicende (quali l’offensiva del premier contro
magistrati inquirenti e giornalisti liberi e per questo considerati
“ostili”e la desolante sopraffazione imposta dal governo sulla libertà
di stampa con il voto di fiducia parlamentare per le intercettazioni).
Ovviamente Caselli non ne scrive, ma sono atti talmente conseguenti
e fisiologici per il sistema di potere descritto nel libro, che il lettore
non può non figurarseli a coronamento e direi a parziale spiegazione
della sconfitta stessa.
Eppure, ancora una volta, tutto
ciò non scalfisce la serena determinazione con la quale Gian Carlo
Caselli prosegue sulla strada prescelta della sua vita blindata, invitando
i tanti compagni mossi dagli stessi valori e soprattutto i giovani a
“saper rompere gli idoli della seduzione, l’idolo del consenso,
l’idolo del potere, per lavorare invece a una comunità finalmente
capace di rompere le ingiustizie. Ripartendo dalla Costituzione”.
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