Sgarbi, i Salvo e il garantismo
La scena non è nuova, ed è sempre la stessa. Dalla mafia che non esiste siamo passati a quella che c’è, ma non è quella che conta, non inquina, non condiziona, soprattutto non fa più ammazzamenti vari e non arriva ai sindaci. Unica cosa che fa si occupa di pale eoliche, di un paio di pali, e lo fa pure male perché si fa scoprire. Se proprio dobbiamo parlare di mafia, parliamo allora dell’antimafia, a sentire i giudizi di alcuni, quella si che inquina, condiziona, non uccide ma poco ci manca, parla di tante cose ma non ha parlato, apriti cielo perciò, dell’eolico, l’antimafia che condanna dal punto di vista sociale coloro i quali sono stati assolti dai Tribunali.
Fra mafia e antimafia, fra ieri e oggi
Così facendo i confini, tra mafia e antimafia, diventano sottili, finiscono quasi con il fondersi, e il mafioso che si infila in questi ambiti non perde tempo a ritrovarsi a contatto con l’altra parte, si confonde, se qualcuno prova a mettere qualche paletto, a dividere le cose, ecco che scoppia la polemica. E in tutto questo il sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi mostra grandi capacità. L’invito che gli era stato rivolto di spendere il suo tempo a capire bene il territorio della provincia di Trapani dove ha deciso di tornare a misurarsi da politico, l’invito a leggere un po’ di carte è stato come respinto al mittente, forse ha avuto poco tempo per leggere, ora che è pure impegnato a tentare la scalata al Parlamento Europeo, partendo dalla Sicilia e stando adesso con l’Mpa di Lombardo con il quale ha cominciato a dialogare litigando su Garibaldi e poi anche a proposito della partecipazione alla Sicilia alla Borsa del Turismo, quando a Sgarbi il presidente Lombardo preferì il giornalista Alessandro Cecchi Paone, comunque il sindaco successivamente se lo nominò assessore-consulente a Salemi, ma Cecchi Paone da quelle parti pare non si sia mai fatto vedere. Lombardo invece si, è venuto a far pace, a rimettere ordine nella storia, restando però anti Garibaldino, al contrario di Sgarbi.
Ultime notizie da Salemi
L’idea di fare il museo della mafia Sgarbi non l’ha abbandonata, i mafiosi stanno bene in carcere, non nei musei, ma lui l’ha inaugurato lo stesso questo museo nell’antico castello di Salemi, con una mostra dei quadri che ritraggono i volti dei mafiosi. Ora la scelta di mettere i mafiosi in mostra non è una bella cosa. E per diverse ragioni, la prima fra tutti che fior di investigatori da queste parti della provincia di Trapani ci dicono che Cosa Nostra è cresciuta grazie al fatto che i boss agli occhi di tanti sono degli idoli, metterli in mostra, come dei divi, perciò rischia di aggiungere danno ad altro danno. Vogliamo ritenere, e ci crediamo che sia andata così, che Sgarbi questa valutazione non l’abbia mai letta, sempre per quella mancanza di tempo.
La mostra si ma senza un quadro…
Dalla mostra però un quadro è stato tolto, quello dell’esattore, proprio di Salemi, Nino Salvo, non è una faccia di mafioso, secondo Sgarbi, perché nessuno lo ha mai condannato per mafia: «Lo faccio – ha spiegato Sgarbi – non in difesa di una persona, ma di un principio, e cioè il garantismo, visto che Nino Salvo, al contrario del fratello Ignazio, non ha mai subito condanne per reati di mafia». Al di là che i due erano cugini e non fratelli, ma non è un errore per ignoranza, semplice svista, è stupefacente la biografia offerta, fuori dalla virgolette delle dichiarazioni, dall’ufficio stampa del sindaco. “Nino e Ignazio Salvo, meglio conosciuti come «i cugini Salvo» o «gli esattori di Salemi», sono stati esponenti dell’ex Democrazia Cristiana ed hanno gestito per anni le esattorie siciliane. Nino Salvo è morto il 19 gennaio del 1986 in una clinica di Bellinzona per un tumore. Ignazio è stato condannato per associazione mafiosa; il 17 settembre del 1992 venne ucciso da un gruppo di killer capitanato da Leoluca Bagarella”. Tutto qui? Forse è troppo poco. E’ giusto che Sgarbi e chi legge sappia certe cose.
Dalle carte giudiziarie
Allora leggiamo ciò che c’è scritto in una sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Trapani nel 1998. A proposito dei rapporti intrattenuti con Cosa Nostra dal pentito Francesco Di Carlo in sentenza c’è scritto: Egli, peraltro, ha avuto frequenti rapporti e contatti con “uomini d’onore” della provincia trapanese, essendo stato talvolta incaricato di recapitare dei messaggi a Mariano AGATE, a “Cola” BUCCELLATO (rappresentante di Castellammare del Golfo) e a “Totò” MINORE (boss della “famiglia” di Trapani); inoltre, aveva potuto incontrare nella loro veste di “uomini d’onore” molti altri esponenti del circuito mafioso della provincia trapanese quali “mastro Ciccio” MESSINA, Francesco MESSINA DENARO, Calcedonio BRUNO, Giovanni BASTONE, i cugini SALVO di Salemi, nonché gli imputati di questo processo BONAFEDE Leonardo, SPEZIA Nunzio, LEONE Giovanni, TAMBURELLO Salvatore, MANCIARACINA Vito, RISERBATO Antonino.
Il pentito Giovanni Brusca, nel relativo capitolo c’è scritto in sentenza: Egli, inoltre, ha ricostruito con grande precisione e ricchezza di particolari di ordine cronologico ed ambientale tutta la sua non breve vicenda criminale, iniziando col narrare che già a 14 anni provvedeva a rifornire dei pasti i latitanti RIINA Salvatore e BAGARELLA Calogero, ormai defunto. Nel 1977-78 fu formalmente affiliato alla “famiglia” di S. Giuseppe Jato, avendo come padrino proprio Totò RIINA. Pur essendo all’epoca un semplice “soldato”, ha poi riconosciuto che, grazie al prestigio acquisto e per la sua qualità di figlio di BRUSCA Bernardo e figlioccio di RIINA Salvatore, gli erano stati già allora attribuiti compiti di grossa responsabilità, quali appunto quelli di intrattenere i collegamenti con i cugini SALVO di Salemi, allo scopo di “aggiustare” i processi, in particolare quello concernente l’omicidio del Capitano dei CC. BASILE.
La sentenza affronta il capitolo riguardante il sequestro di Luigi Corleo, anni settanta, suocero dell’esattore Nino Salvo: L’importanza dell’accadimento criminoso non risiede soltanto nel riscatto richiesto (venti miliardi di lire, cifra invero considerevole nella realtà del tempo) o nella caratura del soggetto passivo – il quale risultava essere suocero di Nino SALVO, uno dei due potenti esattori di Salemi (l’altro era il cugino Ignazio) che, come si appurò definitivamente in seguito, erano legati a filo doppio con i vertici dell’organizzazione mafiosa – ma altresì nel fatto che tale evento, secondo la più condivisibile delle chiavi di lettura che dello stesso verranno offerte, segna un momento fondamentale nella strategia militare che portò Totò RIINA e i “corleonesi” a condurre (e a vincere) una feroce e sanguinaria “guerra di mafia” contro le tradizionali “famiglie” dei BADALAMENTI, BONTADE, INZERILLO, ecc. per la conquista della leadership in seno alla c.d. “Commissione” di «Cosa Nostra»….due sono le “correnti di pensiero” in ordine all’interpretazione dell’episodio criminoso de quo. Da parte di alcuni (ed è la versione avallata dal collaboratore Francesco DI CARLO e in parte anche da Giovanni BRUSCA) il sequestro di Luigi CORLEO fu voluto e realizzato da un gruppo di delinquenti comuni – la c.d. “banda Vannutelli” – i quali, dopo avere posto in essere un’identica impresa criminosa soltanto pochi giorni prima ai danni del professore agrigentino Nicola CAMPISI, realizzarono anche il delitto in o
ggetto, in evidente violazione della regola imposta da «Cosa Nostra» relativa al divieto di porre in essere sequestri di persona in Sicilia. In questa ottica, il ruolo assunto da «Cosa Nostra» – e partitamente dai “corleonesi” – fu quello di individuare ed eliminare ad uno ad uno i responsabili dell’azione criminosa; ciò al duplice scopo di riaffermare la violata autorità dell’organizzazione mafiosa e, al contempo, di dare soddisfazione ai cugini SALVO, potenti e prestigiosi alleati delle “famiglie” mafiose al tempo dominanti. Secondo una differente chiave di lettura – che ha finito col prevalere tra gli organi investigativi (cfr. Rapporto giudiziario del Commissariato di Mazara del Vallo del 14 dicembre 1987 nonché testimonianze dibattimentali del Dott. Calogero GERMANA’ e del m.llo dei Carabinieri Bartolomeo SANTOMAURO) – responsabili del sequestro di persona furono proprio i “corleonesi”, i quali, in previsione della successiva scalata ai vertici di «Cosa Nostra», utilizzarono questo delitto, da un lato, per screditare e minare alla base il potere delle “famiglie” allora dominanti e, dall’altro, per cercare di portare dalla loro parte i SALVO, sino ad allora legati saldamente agli uomini della “vecchia mafia” (successivamente definita “mafia perdente”). In questa diversa prospettiva, il ruolo di RIINA e dei suoi fedeli fu quello di organizzare il sequestro, di farne ricadere la responsabilità su malavitosi comuni (i componenti del gruppo criminale facente capo a VANNUTELLI Vito), ed infine, per acquisire benemerenze presso i cugini SALVO e quale prima dimostrazione di fredda determinazione e di potenza militare, di eliminare a uno a uno i presunti responsabili. A dire il vero, questa tesi trovò conferma anche nelle dichiarazioni di alcuni dei “pentiti” storici di «Cosa Nostra» (BUSCETTA, CONTORNO, CALDERONE), sulla base delle cui dichiarazioni fu chiesto il rinvio a giudizio, in ordine al delitto in questione, anche di Totò RIINA, di Bernardo PROVENZANO e di Pino GRECO detto “scapuzzedda.
Dalla sintesi giornalistica
Fin qui gli accenni che si possono trovare in questa sentenza. La sintesi giornalistica che si può trovare scorrendo le pagine delle cronache giudiziarie, diversi libri, ci racconta che Nino Salvo con il cugino Ignazio hanno segnato l’epoca dei rapporti tra politica, mafia e imprenditoria. Un episodio che fece da spartiacque fu quel sequestro con il quale i corleonesi imposero al gruppo Salvo la loro presenza nei canali di finanziamento e riciclaggio e nei rapporti che i cugini intrattenevano con la politica, a partire da quello con Andreotti. La fazione dei Bontade si vide così imporre l’ingombrante entrata negli affari più lucrosi. Il povero Corleo non tornò dalla sua prigione anche se per il rilascio venne pagato un fortissimo riscatto. Su quel sequestro indagò a lungo un dirigente di Polizia, il vicequestore di Trapani Giuseppe Peri, che stilò un rapporto; secondo Peri, dietro il sequestro Corleo, ed altri rapimenti, c’era un preciso disegno politico-eversivo che legava Cosa nostra all’estrema destra. Peri venne allontanato dal suo posto, isolato e le sue indagini ridicolizzate. Morirà pochi anni solo e dimenticato.
Chi erano i Salvo
Dal sequestro Corleo in poi la banda Riina invadeva la provincia di Trapani e si sedeva al tavolino degli affari. I Salvo non erano personaggi da poco. Imprenditori, avevano fatto fortuna con le esattorie avendo un aggio da medioevo, il 10 per cento su tutti i tributi della Sicilia occidentale ed erano i grandi elemosinieri della DC. Nino, il meno diplomatico dei due cugini, era addirittura uomo d’onore e da tempo finanziava grandi traffici illegali, quelli di Salvatore Zizzo che abbiamo già visto, e le sontuose campagne elettorali di alcuni big della DC, godendo di un rapporto privilegiato con Andreotti, come è stato affermato dai giudici della Cassazione secondo i quali lo zio Giulio fino al 1980 intratteneva rapporti con loro e con il capo Stefano Bontade, reato questo non più punibile per il tempo trascorso ( prescrizione).
I cugini Salvo erano gli uomini più ricchi della Sicilia, entrambi uomini d’onore. Il padre di Ignazio, Luigi, fu il capomafia di Salemi. Già Dalla Chiesa in un rapporto del 1971 segnalava l’anomalia. Pio La Torre e Cesare Terranova scrissero nella relazione di minoranza in Commissione Antimafia nel 1976 che la DC trapanese è totalmente nelle mani dei due cugini e che il rapporto tra gruppi mafiosi e potere politico va ricercato in questa posizione di potere primo esempio di impegno imprenditoriale dei gruppi mafiosi, le cui scelte si rivolgono non solo alla speculazione edilizia ma anche a quella finanziaria. I rapporti più stretti -secondo La Torre e Terranova – erano con Lima Gioia e Ruffini ma anche con altri singoli rappresentanti di altri partiti per determinate operazione economiche. Di sospetti sui Salvo si iniziò a parlare a metà degli anni ’60. Nel ’66 il parlamento regionale boccia una mozione che prevedeva la ridefinizione dell’accordo per le esattorie. Ma i Salvo hanno anche contatti diretti con Cosa Nostra, come racconterà Antonino Calderone. Ai Salvo, ci si rivolgeva per raccomandazioni, segnalazioni, per far rimuovere poliziotti e dirigenti regionali non graditi. Il tutto – racconta Calderone – attraverso Salvo Lima che nello stesso tempo frequentava casa di Stefano Bontade, il boss della cupola. Insomma la foto di gruppo di un sistema di potere vedeva allineati i Salvo, Lima e Boutade. Sulla base delle testimonianze di Calderone e Contorno, Falcone chiese e ottenne, alla vigilia del maxiprocesso l’arresto dei Salvo: era il 12 novembre del 1984. Il santuario del gruppo di potere più forte della Sicilia veniva toccato per la prima volta e si iniziò a parlare di terzo livello. Nino Salvo morì prima della fine del processo, Ignazio invece venne condannato, prima a sette anni, poi a tre per associazione mafiosa. I grandi elemosinieri della DC erano uomini d’onore. Ignazio Salvo muore invece nel fatidico anno 1992, per ultimo, dopo Lima, Falcone e Borsellino. Il 27 settembre ritorna a casa e trova ad attenderlo un gruppo di killer, tra cui Bagarella, che lo uccide. Il movente, come quello per Lima, era non aver saputo garantire il patto di impunità tra Cosa Nostra e la politica. A fare da basista fu un medico, Gaetano Sangiorgi, genero di Nino Salvo.
C’è una puntata della serie Blu Notte di Carlo Lucarelli che ricostruisce la storia dei Salvo e dei loro rapporti con la politica. L’artista Flavia Mantovan dunque ha avuto ragione di mettere anche il voto di Nino Salvo in mezzo ai quadri che ritraggono i mafiosi. Lei perciò giustamente ha protestato con Sgarbi quando ha saputo di quel quadro tolto. Ma protestando ci ha raccontato un’altra cosa: che la sua mostra non era solo fatta dei quadri dei mafiosi, ma anche dei volti dell’antimafia, solo che Sgarbi ha voluto i primi di quadri non gli altri. Tutte cose che il sindaco comunque non ha nascosto rendendo nota la lettera dell’artista. «Mi sembra inaccettabile – scrive la Mantovan – la censura di Sgarbi perché io avevo fatto una mostra molto più ampia nella quale c’erano tutti i protagonisti della mafia e dell’antimafia, ed anche Borsellino e Falcone. È stato Sgarbi a chiedermi di limitare la mostra solo alle “facce di mafiosi”, e nella mia percezione quelli che ho scelto erano legati al mondo della mafia». Insomma una percezione personale tradotta in arte. «È stato sempre Sgarbi – ha continuato – a ricordarmi che l’episodio del presunto bacio di Riina con Andreotti sarebbe avvenuto nella casa dei Salvo a Palermo. Nella mia percezione, dunque, i Salvo arrestati da Falcone, erano mafiosi». Il sindaco a questo punto non ha attaccato più, ha spiegato che «è stata una scelta tra buoni e cattivi. Io non difendo i Salvo, ma il principio del garantismo».
Del garantismo
Probabilmente
è ora pure di garantire chi davvero con la mafia non c’entra nulla e dalla mafia è sfruttato, perseguitato. Anche in modo indiretto, e Sgarbi non può non essere di questa partita, se è garantista: la mafia la pagano per esempio quegli imprenditori che si vedono negati i finanziamenti pubblici concessi invece ad altri imprenditori “amici degli amici”, i familiari di chi è stato ucciso per avere fatto il loro dovere, o anche chi si è trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Insomma ce ne è di persone da garantire prima di chi è passato per le aule di giustizia ed è riuscito, buon per lui, a farla franca. Magari poi finisce sorvegliato speciale, che non è poi cosa proprio di poco conto.
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