“La bellezza e l’inferno”
Scrivere per non arrendersi
Anticipiamo parte dell’introduzione al nuovo libro di Roberto Saviano “La bellezza e l’inferno”, da oggi in libreria.
Scrivere, in questi anni, mi ha dato la possibilità di esistere e se
qualcuno ha sperato che vivere in una situazione difficilissima potesse
indurmi a nascondere le mie parole, ha sbagliato. Ho scritto in una
decina di case diverse. Tutte piccolissime e buie. Le avrei volute più
spaziose, luminose, ma nessuno me le fittava.
Non potevo girare per cercarle e nemmeno decidere da solo dove abitare.
E se diventava noto che io stavo in quella via ero subito costretto a
traslocare. E’ la situazione di molti che vivono nelle mie condizioni.
Ti presenti a vedere l’appartamento che con fatica i carabinieri hanno
selezionato, ma appena il proprietario ti riconosce, la risposta è
sempre la stessa: “La stimo moltissimo, dottore, ma ho già molti
problemi. Capisce, qui la gente ha paura”. Però accanto a questa paura,
copertura vile per non voler essere ascritti a una parte – alla mia – ,
ci sono stati anche i gesti di molti che non conoscevo, che mi hanno
offerto un rifugio, una stanza, amicizia, calore. E anche se spesso non
ho potuto accettare le loro proposte, ho scritto pure in quei luoghi
ospitali e colmi di affetto.
Molte delle pagine riunite in questo libro non le ho nemmeno scritte in
una casa, ma in camere d’albergo. Buie, senza finestre da poter aprire,
senza aria. All’estero è capitato anche che non vedessi nient’altro che
quelle camere e il profilo della città dietro i vetri oscurati di una
macchina blindata. Non si fidavano a lasciarmi uscire e spesso non si
fidano nemmeno a lasciarmi nello stesso albergo per più di una notte.
Più la criminalità e le mafie sembrano lontane, più ti trattano come
qualcosa che potrebbe esplodergli sotto gli occhi. Con dei guanti che
non sai se sono da cerimonia o da artificieri. E tu non capisci se sei
più un pacchetto regalo o un pacco-bomba.
Più spesso ancora ho scritto in caserma. Nel ventre quasi vuoto e
immobile di una grande, vecchia balena fatta per operare. Mentre fuori
intuisci movimento, c’è il sole, è già estate. Sai che se potessi
uscire, in due minuti passeresti davanti alla tua vecchia casa, la
prima dove ti dissero “Finalmente te ne stai andando!”, e in altri
cinque saresti al mare. Ma non puoi farlo.
Però puoi scrivere. Devi e vuoi continuare. Il cinismo che
contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia intravedere
sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che non ha uno scopo
preciso. O il distacco di chi vuole solo fare un buon libro, limare le
parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile. E’ questo ciò
che deve fare uno scrittore? Questa è letteratura? Allora, per quanto
mi riguarda, preferirei non scrivere.
Il bisogno di distruggere tutto ciò che possa essere desiderio e
voglia: questo è il cinismo. E’ l’armatura dei disperati che non sanno
di esserlo. Che vedono tutto come una manovra furba per arricchirsi, la
pretesa di cambiare come un’ingenuità da apprendisti stregoni e la
scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di impostura da
piazzisti. Nulla può essere tolto a questi signori diffidenti e
perennemente con il ghigno di chi sa già che tutto finirà male, perché
non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare. Ma nel privilegio
delle loro vite disilluse e protette, non hanno idea di che cosa possa
veramente voler dire scrivere.
Scrivere è il contrario di tutto questo. E’ riuscire a iscrivere una
parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con
un’informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare a
memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua
saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è fare resistenza.
La mia vicenda di questi anni mi ha permesso di incontrare molte
persone che non potrò mai dimenticare. Mi ha dato la possibilità di
trovarmi con Enzo Biagi, di capire che quell’uomo anziano aveva ancora
tanta voglia di interrogarsi e di capire il mondo.
E poi Miriam Makeba, la grande “Mama Africa”, la voce che cantava la
libertà di un continente e invece è morta a Castel Volturno, dopo un
concerto per ricordare sei fratelli uccisi dalla camorra e per
esprimere la sua vicinanza a me, che non aveva mai incontrato,
bersaglio di un nemico di cui lei non conosceva nemmeno il nome.
Nello stadio del Barcellona ero scortato dai Mossos, i corpi speciali
della polizia catalana che volevano portarmi a vedere la partita
circondato da un cubo di vetro antiproiettile e che poi, mossi a
compassione, mi hanno risparmiato quel nuovo tipo grottesco di
prigione. Lì ho incontrato Lionel Messi, l’attaccante argentino del
Barça, che è riuscito a rifare, identico, il gol più bello di Diego
Armando Maradona. Faccia da bimbo che non dice nulla delle sofferenze
che ha patito, delle cure dolorose che gli hanno permesso di crescere e
divenire il più grande giocatore dei nostri giorni.
A volte però mi trovo a guardare indietro. E allora so a chi questo
libro non è destinato. Non va a tutte quelle persone con cui sono
cresciuto, che si sono accontentate di galleggiare, di tirare a campare
in giorni tutti uguali. Non va ai rassegnati, fermi a scambiarsi le
fidanzate, scegliendo tra chi è rimasto spaiato come le scarpe dentro
scatole impolverate. A chi crede che per diventare adulti bisogna
caricarsi in groppa i fallimenti di un altro, piuttosto che rilanciarsi
insieme in una sfida. Io non scrivo mandando lettere verso un passato
che non posso né voglio più raggiungere. Perché se guardo indietro so
che rischio di finire come la moglie di Lot, trasformata in statua di
sale mentre guardava la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. E’
questo quel che fa il dolore quando non ha nessuno sbocco: ti
pietrifica. Come se i tuoi pianti, a contatto col tuo rancore, si
rapprendessero in tanti cristalli divenendo una trappola mortale.
Allora, quando mi guardo indietro, l’unica cosa in cui mi riconosco
sono le mie parole.
Questo libro va a chi ha reso possibile che Gomorra
divenisse un testo pericoloso per certi poteri che hanno bisogno di
silenzio e ombra. A chi ha assimilato le sue parole, a chi si è
ritrovato nelle piazze per leggerne delle pagine, testimoniando che la
mia vicenda e le mie parole erano diventate di tutti. Senza di loro non
ce l’avrei fatta a continuare a esistere pensando a un futuro. Sapendo
che la mia vita blindata era comunque una vita. Senza i miei lettori
non avrei mai avuto le prime pagine dei giornali, le telecamere in
prima serata. Devo a loro se ho compreso l’importanza del confronto con
i media. Quando dietro non ci sono il vuoto, la trama di finzioni che
non fanno altro che distrarre e consolare, ma ci sono la voglia e il
desiderio di tanti di sapere e di cambiare, perché non possono essere
usati tutti i mezzi di comunicazione possibili per unificare le forze?
Perché averne tanto sospetto o paura?
Paura. In tutte le interviste, in tutti i Paesi dove il mio libro è
stato pubblicato, mi chiedono sempre se io non abbia paura che mi
possano ammazzare. “No” rispondo subito, e lì mi fermo. Poi mi capita
di pensare che chissà quanti non mi crederanno. Invece è così. Perché
la peggiore delle mie paure, quella che mi assilla di continuo, è che
riescano a diffamarmi, a distruggere la mia credibilità, a infangare
ciò per cui mi sono speso e ho pagato. Lo hanno fatto con chiunque
abbia raccontato e denunciato.
C’è una frase di Truman Capote, vera e terribile: “Si versano più
lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”. Se ho
avuto un sogno, è stato quello di dimostrare che la parola letteraria
può ancora avere il potere di cambiare la realtà. La mia “preghiera”,
grazie ai miei lettori, è stata esaudita, ma sono anche divenuto altro
da quel che avevo immaginato. E questo è stato difficile da accettare,
finché non ho capito che nessuno sceglie il suo destino. Però può
sempre scegliere la maniera in cui starci dentro. E per quanto mi
riesca, voglio provare a fare il mio lavoro nel migliore dei modi,
senza sconti e semplificazioni, perché è questo ciò che sento di dovere
a tutti coloro che mi hanno sostenuto.
Il titolo di questo libro vuole ricordare che da un lato esistono la
libertà e la bellezza necessarie per chi scrive e per chi vive,
dall’altro esiste la loro negazione: l’inferno che sembra continuamente
prevalere. Ad Albert Camus appartiene una piccola frase apparentemente
senza peso. Per me, invece, ne ha molto perché mi ricorda quanto
Giovanni Falcone diceva a proposito della mafia e del suo essere un
fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani delimitato da un inizio e
da una fine. Ecco allora quel che scrisse Camus: “L’inferno ha un tempo
solo, la vita un giorno ricomincia”.
E’ quello che credo, spero, voglio e desidero anch’io.
da Repubblica.it
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