Il metodo Nisticò
«Già all’indomani del mio arrivo più di un dirigente locale si presentava in redazione con l’aria del padroncino di casa. Poi un giorno vidi addirittura un gruppetto, segretario cittadino in testa, tranquillamente occupati in una tipica riunione di partito come in federazione o in una sezione. Non ebbi altra scelta che invitarli ad andarsene. Fu il primo paletto; l’altro fu di stabilire il divieto di cellule all’interno del giornale e, per i redattori, di assumere incarichi di pubblica militanza politica». Con queste parole, Vittorio Nisticò ricordava il suo arrivo alla direzione de «L’Ora» di Palermo. Ne scrisse, insieme a tantissimi altri aneddoti e analisi, a distanza di cinquant’anni in un libro che raccoglie i suoi editoriali pubblicati nel volgere di un ventennio sulle pagine di quel giornale. Un libro unico sul piano storico e sul piano dell’etica giornalistica.
Vittorio Nisticò fu direttore di quel giornale sgarrupato e battagliero dal ’54 al ’75. E contribuì, più di ogni altro, a farne una fucina di talenti, la bandiera di un’informazione partigiana che oggi tutti ricordano con nostalgia. Quelle parole raccontano di una fiera e onesta appartenenza culturale e politica che si difendeva strenuamente dalle ingerenze di partito. «L’Ora» apparteneva al PCI, ma non ne subiva la linea. Fu Nisticò a garantirne l’indipendenza e ad essere, semmai, insieme agli intellettuali che gravavano intorno alla testata, fucina di idee e programmi politici.
Raccolse la sfida di rilanciare una testata che da sempre in Sicilia era stata sinonimo di progresso sociale. Fenomeno fatto di carta e inchiostro di un antica idea di libertà alla base di un progetto di influenza politica partorito dalla migliore imprenditoria siciliana che tanta ricchezza e prestigio aveva distribuito nell’isola. Allora, e stiamo parlando del 1901, come ora, il sogno di una società aperta, libera dalle ingerenze politico – imprenditoriali-mafiose, rimaneva un orizzonte al quale guardare con tenacia e rispetto al quale spendere le migliori energie. Quella battaglia fu ingaggiata dai Florio e trovò fabbrica di consenso nelle pagine de «L’Ora». Passato di mano in mano fra il primo e il secondo dopoguerra, il quotidiano trovò nel 1954, per esplicito volere della vedova dell’ultimo editore, nel PCI il nuovo padrone, nel popolo siciliano l’unico referente, e questo grazie a quei paletti piantati dal notista politico calabrese che a 35 anni ne agguantò il timone.
A Vittorio Nisticò, in quel lontano 1954, il compito di rileggere in chiave moderna quanto già espresso dal progetto politico progressista di inizio secolo, che opponeva aspramente le istanze delle classi lavoratrici e medio-borghesi agli interessi del vecchio e chiuso sistema di potere siciliano nel quale la mafia giocava un ruolo essenziale. Un riformismo sociale aperto alle forze produttive, e al contempo intransigente, a causa delle fragilissime dinamiche democratiche dell’isola. Durante la sua direzione, «L’Ora» non fu solo un testimone dei fatti. Fu piuttosto dentro ai fatti, intervenendo sull’agenda politica, parteggiando, offrendo ai lettori un punto di vista netto. E questo non solo perché l’antica anima del giornale finiva per innestarsi sulla fortissima identità della sinistra antimafiosa siciliana forgiata col sangue versato dal movimento contadino. Ma soprattutto perché «L’Ora», con Nisticò, cominciò a fissare i suoi valori di notiziabilità sulla consuetudine di leggere gli avvenimenti dell’attualità come elementi di un processo storico più ampio, definendoli in virtù del loro peso sul mutamento sociale e politico, applicando all’attualità le categorie dell’interpretazione storica. Una scelta e un metodo che hanno avuto un robusto indirizzo politico e culturale, e un peso molto forte nella definizione dell’idea che i lettori avevano di sé, della loro terra e delle scelte politiche necessarie al cambiamento.
Fra queste scelte, la lotta senza quartiere alla mafia. Il 15 ottobre del 1958, sulla scia di sangue della faida che segnò la scalata al potere mafioso del gruppo di Luciano Liggio, debutta sulle pagine de «L’Ora» l’inchiesta «Tutto sulla mafia». «Dà pane e morte» è il titolo con caratteri da pennello, non tipografici, della prima puntata di una serie di approfondimenti il cui scopo è quello di «riproporre l’annosa questione della mafia all’attenzione dell’opinione pubblica e del Parlamento». Occorreva «procedere a un esame organico dell’organizzazione della mafia, entrando nel labirinto dei suoi affari e dei suoi rapporti con la politica e le istituzioni». Il direttore mise a punto un’équipe di indagine di sei giornalisti coordinati da Felice Chilanti. L’incipit di «Dà pane e morte» è un classico del giornalismo di inchiesta che vale la pena di citare: «Qualche settimana fa, mentre l’Assemblea regionale discuteva il Bilancio della Regione e già si dava per certa la caduta del governo La Loggia, sono stati notati alcuni strani personaggi lungo i corridoi del Palazzo dei Normanni. Erano i capimafia venuti a Palermo da Caltanissetta ed Agrigento per far sentire le loro ragioni. Genco Russo, l’uomo che viene indicato come il successore del defunto commendator Calogero Vizzini, capo e primo consigliere di tutte le mafie isolane, entrava ed usciva da tutti gli uffici, si intratteneva con deputati e assessori, insomma si faceva intendere. E la sua presenza veniva osservata e commentata a bassa voce e nelle cronache della “crisi governativa” si è fatto il suon nome. Questo Genco Russo è un “agricoltore” di Mussomeli, un privato cittadino. E tuttavia la sua presenza alla sede dell’Assemblea regionale in un momento decisivo di una crisi governativa assumeva significati oscuri, tenebrosi, in un certo senso suggestivi».
Il giorno successivo, inserito in una cornice di piccole stelline nere, accanto allo schizzo della fondina di un’automatica, domina la pagina il titolo «Pericoloso! ». Sotto, al centro della pagina, l’enorme foto stile wanted di un sardonico Luciano Liggio. Non passano tre giorni. La notte fra il 18 e il 19 ottobre, quattro chili di tritolo fanno saltare in aria la tipografia del giornale. «La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua» è l’apertura del 20 ottobre. «La nostra pelle» è l’editoriale del direttore: «È ora di finirla con certe carenze e con certi silenzi che […] sono colpevoli e controproducenti in quanto hanno soprattutto il risultato di tener vivo il clima di sfiducia e di paura che la secolare carenza dei poteri statali ha determinato nell’opinione pubblica media della nostra isola. […] Proseguiremo nella nostra inchiesta e cercheremo di approfondire l’aspetto di fondo di tutta la questione che è quello delle complicità e delle protezioni politiche».
Quell’inchiesta, l’attentato che ne seguì, ebbero un effetto immediato sull’ azione del governo regionale di Silvio Milazzo, che da lì a poco varò una riforma per il risanamento dei consorzi di bonifica, una miniera di denaro pubblico che finiva dritto in mano alla cosche. Ma ci sono almeno altri tre effetti provocati dal lavoro dei sei giornalisti de «L’Ora». Da una parte, dopo quell’attentato si cominciò a discutere in Assemblea regionale di un documento che proponeva al Parlamento l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, istituita poi nel 1963. Dall’altra, la lettura della mafia come un sistema di potere nel quale confluiscono politica ed economia – in un contesto nel quale si negava persino la sua esistenza – fu il primo passo per costruire, in anni più recenti, un’organica e più efficiente lotta contro la criminalità organizzata da parte della società civile e di alcuni servitori dello Stato. Quella definizione sistemica determinò, infine, la consapevolezza diffusa che la mafia non fosse solo un problema siciliano, ma che, proprio per
la sua capacità di inquinamento della vita pubblica italiana, fosse piuttosto una questione nazionale. «Ci voleva l’attentato a L’Ora per capire che la mafia c’è», è l’apertura del 22 ottobre 1958 che riprende le parole del futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Quello espresso da «L’Ora» fu un giornalismo antimafia politico. Il gruppo di intellettuali che lo realizzava capì che la lotta ai clan non poteva che essere agone politico. La costante attenzione al fenomeno, l’impostazione di indagine autonoma, le interpretazioni accordate alla mafia sulla base di una chiave di lettura che la vede come sistema, permisero a «L’Ora» di svelare che Cosa nostra non era (e non è) solo un organismo che collude con la politica, ma che è piuttosto un pezzo della politica. Così come tutta la storia del Novecento siciliano ha dimostrato, a partire dalla difesa degli interessi reazionari del blocco agrario di inizio secolo, passando da Portella della ginestra, fino alla speculazione edilizia di Lima e Ciancimino. Un’impostazione di questo tipo non poteva che venire da un giornale dal forte indirizzo politico e dalla capacità di lettura storica dell’attualità.
Quel giornalismo di inchiesta sulla mafia è la grande eredità che «L’Ora» ha lasciato a questo Paese. Vittorio Nisticò e la sua redazione la squadra che giorno dopo giorno costruirono quest’eredità in anni che ci appaiono lontani e così diversi dai nostri ma che rimangono invece incredibilmente simili rispetto al rapporto di forza che la mafia continua ad avere nella società, nella politica e nell’imprenditoria italiana. Vittorio Nisticò è morto ieri a Roma a 89 anni. Ognuno di noi avrebbe voluto imparare da lui la professione di giornalista.
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