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Opinione pubblica decisiva per chiudere un caso riaperto con il “cuore”

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Il «cuore» ritorna sempre in questa storia che resta pur sempre brutta, drammatica, sporcata dalla morte violenta, dalla protervia mafiosa che sia che abbia il volto dei killer o quella dei boss che fanno impresa, è semrpe la stessa cosa. Il «cuore» è quello consegnato da Rostagno ai trapanesi, ai quali lui per un po’ di tempo riuscì a parlare ogni giorno dagli schermi di Rtc, raccontando ciò che succedeva nel territorio, ma che in «cuor» suo, per l’appunto, probabilmente desiderava un po’ anche quello che altri oggi sperano accada, ossia la riscoperta della capacità ad indignarsi, anche  per il più modesto dei diritti non rispettati e del più piccolo dei doveri non garantito. C’è poi il «cuore» di quelle 10 mila persone che da Trapani in su hanno firmato la petizione al presidente Napolitano perchè le indagini non finissero in archivio come stava per accadere un anno e mezzo addietro. C’è il «cuore» degli sbirri, quelli stessi che si definiscono così perchè sentono dentro il dovere di fedeltà allo Stato, alle leggi e a tutti i cittadini. E in ultimo c’è il «cuore» che ha pulsato nelle indagini concluse con la notifica dei due ordini di arresto per chi ordinò il delitto e guidò il gruppo di fuoco contro Rostagno.

Un caso che sembrava chiuso ma non era così?

«Non facciamoci prendere dalle fiction americane sui casi chiusi, poi aperti e risolti. Per noi – dice il questore Gualtieri – tutti i casi sono uguali, ci sono momenti in cui le indagini possono vivere uno stallo, noi cerchiamo di tenerle sempre vive e quando emergono elementi importanti siamo pronti a muoverci, oggi possiamo avere a disposizione determinate specialità tecniche che magari prima non avevamo, ma al di là della tecnologia c’è sempre l’approccio fatto di serietà e pazienza, che poi sono le cose più utili per risolvere ogni genere di delitto».

La società vi ha chiesto con 10 mila firme di non fermarvi, ha avuto peso questa petizione?

«Ha pesato di più sull’opinione pubblica che è stata adeguatamente scrollata, noi non ne avevamo bisogno, Rostagno era un uomo di cultura che diceva apertamente i fatti,come accadevano, ed era per questo simbolo di una  stampa libera, e noi che siamo una Polizia libera e democratica ci tenevamo che si facesse luce su questo caso».

A incastrare gli indagati una perizia balistica. I proiettili venivano trattati per non farli diventare riconoscibili anche rispetto alle armi che poi li avrebbero esplosi. Questa la tecnica del killer Vito Mazzara, e però la sua consuetudine ha finito col dare precisa «identità» a quei propriettili e ai relativi bossoli raccolti sulle scene di alcuni delitti, Rostagno compreso.

«Gli accorgimenti utilizzati da Mazara per non essere individuato – dice Manfredi Lo Presti del Gabinetto regionale di Polizia Scientifica – si sono ritorti contro di lui, bossoli con le stesse caratteristiche sono stati trovati come nel delitto Rostagno in altri commessi tra il 90 ed il 95, omicidi attribuiti con sentenze definitive di condanna a Vito Mazzara».

«Il dato certo – dice il capo della Squadra Mobile vice questore Giuseppe Linares – è quello che noi abbiamo dato un volto e un nome a chi dentro Cosa Nostra ha avuto ruolo deliberativo e operativo, non sono escluse responsabilità di altri, sappiamo che ci sono stati almeno altri due esecutori materiali allo stato ignoti, così come emergono le compatibilità con altri filoni dell’inchiesta. Oggi esiste, nel rispetto del processo che sarà fatto, un punto fermo, c’è un ordine di cattura che isola responsabilità precise».

Dunque le piste di quel traffico di armi che Rostagno può avere scoperto prima di essere ucciso nell’aeroporto ufficialmente chiuso di Kinisia, o addirittura le connessioni con altre vicende su connessioni tra servizi deviati, massoneria, continuano ad avere un peso?

«Le indagini di oggi offrono spunti che sono compatibili con la possibilità che soggetti esterni all’organizzazione mafiosa possono avere sollecitato il delitto».

Rostagno ucciso, perchè? Cosa ci dice in concreto l’indagine di oggi?

«Rostagno fu ucciso perchè costituiva una mina vagante, il periodo del delitto era un periodo nel quale grande era lo strapotere dei capi mafia, che erano tutti liberi, costretti da lì a qualche tempo a darsi latitanti, ma liberi erano anche i killer. Le parole dette da Rostagno giornalmente suonavamo alla mafia come una sfida, che divenne anche verbale, quasi fisica, quando un giorno il boss di Mazara Mariano Agate platealmente intervenne contro Rostagno, ma le parole di Rostagno venivano ascoltate come sfida anche da politici, quelli che lui accusava nelle sue cronache e che sono gli stessi politici oggi imputati in processi o già condannati. Nel 1988 si creò un cocktail micidiale, questo ha fatto si che la mafia finisse con il deliberare quel delitto».

Trapani da sempre è stata vista come zoccolo duro della mafia, muro di gomma. Il caso Rostagno sembra sia prova di ciò?

«L’azione di Rostagno – risponde il capo della Mobile Linares – a quell’epoca, ripeto, rappresentava  una sfida. Cosa Nostra trapanese ha una peculiarità, è un movimento criminale capace di essere movimento di pensiero, nel senso che tende a controllare la società, risultato è quello che all’epoca certamente esisteva una società solidale con Cosa Nostra, fortemente permeata, oggi l’esistenza accertata della cosidetta “zona grigia”, della mafia imprenditoriale, scaturiscono da quella realtà. Se questa realtà oggi c’è, a maggior ragione nel 1988 esisteva quell’altra espressione di complicità, con la differenza rispetto ad ora che in quegli anni del delitto Rostagno quella mafia a disposizione aveva un esercito di killer».

Lei ha voluto creare uno speciale collegamento, tra Calabresi e Rostagno. Una vicenda che qualcuno un giorno tirò fuori addirittura come pista investigativa per il delitto, per le storie di Lotta Continua della quale Rostagno era leader, la comunicazione giudiziaria che lui ricevette nella prima fase dell’indagine conclusa con la condanna di Sofri e Pietrostefani, per quelle sue affermazioni in tv pochi giorni prima del delitto quando disse che era pronto a raccontarla lui la verità. Oggi il nesso è un altro?

«Nell’apprestarmi a lavorare in questa indagine mi faceva piacere pensare, nel segno di una nuova riconciliazione, a un commissario di polizia come lo era stato il commissario Calabresi che si impegnava questa volta a rendere giustizia ad un uomo di Lotta Continua che qui era venuto per combattere la mafia e che ha trovato tragicamente la morte».

Una indagine che nasce dal cuore. Di chi?

«Nasce – conclude Linares – dal cuore delle donne e degli uomini della squadra mobile, dal desiderio di questi di porre le proprie firme e dire il proprio pensiero investigativo, giocare la propria scommessa, che è la scommessa dello sbirro di risolvere quella che era una pagina insoluta, una pagina oscura della storia trapanese. Oggi, grazie a questa scommessa e all’aiuto prezioso della Polizia Scientifica, abbiamo finalmente un primo cenno di verità».

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