Le intercettazioni: il killer Vito Mazzara temeva di essere scoperto
Il 29 aprile
2008 in carcere a Biella dove si trova, Vito Mazzara, il presunto sicario
di Mauro Rostagno, capo del gruppo di fuoco che entrò in azione la
sera del 26 settembre 1988, a Lenzi, a pochi metri dall’ingresso della
comunità Saman, viene sentito parlare con la figlia Francesca e la
moglie Caterina Culcasi. Mazzara aveva letto un articolo di stampa
nel quale erano trattate “cose vecchie”, segnatamente un
fatto risalente agli ultimi anni ’80 (“…cose vecchie di
… dell’ottantasette”), un fatto periodicamente ripreso dagli
organi di informazioni perché, evidentemente di interesse dell’opinione
pubblica (così Mazzara alla moglie: “cose vecchie
… che rimpastano sempre…hai capito?”). Il fatto in argomento
riguarda il Mazzara: la ripresa video documenta il gesto del detenuto
che, nel menzionare l’articolo, indica se stesso con la mano sinistra.
Emerge, ancora che di tali “cose vecchie”
si erano occupati anche quotidiani nazionali (“Corriere della Sera…giornali…non
solo della regione Sicilia…”). Mazzara ribadisce che si tratta
di “un discorso di venti anni fa”; si dichiara convinto che
gli inquirenti non abbiano elementi utili a disposizione ma rende esplicito
il timore che vengano acquisite nuove risultanze (“…quando devono
vestiri u pupu […] questo discorso
è di venti anni fa…no…non c’è niente
…e siccome vorrebbero…. vorrebbero far uscire qualcosa….mi hai
capito tu!?”).
Il “discorso
di venti anni fa” cui ha fatto riferimento il Mazzara è, senza
dubbio alcuno, l’omicidio del giornalista Rostagno. Già i significativi
particolari colti nel corso del dialogo intercettato supportano tale
conclusione.
Mazzara, come
è appena il caso di evidenziare, ha manifestato apertamente il timore
che, nell’ambito della “inchiesta” che “hanno fatta riaprire
nuovamente” vengano acquisite nuove risultanze. E tale timore
egli ha rivelato con riguardo ad un fatto rispetto al quale non ha dichiarato
la propria estraneità bensì la convinzione circa il difetto di validi
elementi di prova (“…no …non c’è niente”).
Vito
Mazzara parla con i familiari, mostra fastidio per l’azione nel frattempo
condotta a Trapani, dove si raccolgono firme per far riprendere le indagini.
Questa una parte della conversazione: ..eh..l’altra volta…l’altra
volta… nel giornale c’era un articolo cose vecchie… RIMPASTANO
sempre… hai capito? il magistrato avrebbe voluto chiudere l’inchiesta…
e allora dietro l’opinione pubblica… dietro l’opinione pubblica
che spingono… che spingono… che spingono… non gliel’hanno fatta
chiudere mai… perchè non e’ che comanda la magistratura… comanda
l’opinione pubblica…mi hai capito tu !?… comanda l’opinione…
no la magistratura… l’opinione pubblica…per esperienza so… che
quando devono “vestiri u pupu… vestiri u pupu”… ( devono dimostrare
che fanno qualcosa)… sono capaci di fare qualsiasi cosa… specialmente
quando devono dare soddisfazione all’opinione pubblica… siccome
questo discorso è di venti anni fa… no… non c’e’ niente…
e siccome vorrebbero… vorrebbero far uscire qualcosa… mi hai capito
tu!?…
Il colloquio
in altra occasione riprende in questa maniera: alla figlia che gli rappresenta
di aver sgomberato il garage di pertinenza dell’abitazione della madre,
Mazzara rammenta l’esistenza di un sito occulto realizzato all’interno
del “casotto”, in corrispondenza di alcuni mattoni
“un poco rialzati”. “Se ci sono cose… prendi e
butta tutto… può essere che non c’è niente… io non me lo ricordo…
ma qualsiasi cosa ci dovrebbe essere butta tutto…”.
Nel pomeriggio
di quello stesso giorno in cui è stata captata la conversazione in
argomento, il personale della Squadra Mobile di Trapani ha proceduto
ad ispezionare i luoghi cui gli interlocutori avevano fatto riferimento
ed ha individuato, nel cortile antistante il garage di pertinenza dell’abitazione
di Culcasi Caterina, moglie del Mazzara, un ripostiglio in muratura.
Nel corso dell’ispezione estesa a detto locale venivano notati sul
pavimento cinque mattoni rialzati. Il primo di essi risultava agevolmente
rimovibile. Asportato il mattone gli investigatori accertavano la presenza
di un sito, avente una base in cemento, che risulta così descritto:
“un foro cilindrico del diametro di cm 20 circa e profondo non
meno di cm 100 con all’interno soltanto dei contenitori di ricotta
in plastica”).
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