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Per non morire di mafia

Di Stefano Fantino il . Recensioni

L’ingresso di Pietro Grasso in magistratura risale al 1969. Quarant’anni, da quando 24enne dopo l’uditorato a Palermo venne nominato pretore di Barrafranca (Enna) fino ai giorni nostri e alla posizione ancora ricoperta di Procuratore nazionale antimafia. Difficile far rivivere l’intensità di queste quattro decadi, soprattutto se il comune denominatore di tutti questi anni è stato quello della mafia. Tuttavia Grasso tenta di affidare la sua vita professionale, i suoi ricordi di uomo di legge e di Stato a un libro che, pur gravoso di quasi trecento pagine, risulta scorrevole e facile da approcciare. La scelta fondamentale è quella di affidarsi a una forma particolarmente generosa come quella dell’intervista autobiografica, delegando le domande e la custodia di un fil rouge a Alberto La Volpe , già direttore del Tg2 e conduttore del programma Lezioni di Mafia, ideato con Giovanni Falcone poco prima del suo assassinio. Proprio il giudice palermitano ucciso nella strage di Capaci è uno dei fulcri che il giovane Grasso incontra alle origini della propria scelta di occuparsi di criminalità organizzata: il maxi processo a Cosa nostra degli anni Ottanta fu per l’attuale procuratore antimafia un momento decisivo dal punto di vista personale e professionale. Ne esce un ritratto a tutto tondo del giovane Grasso, emozionato, preoccupato, ma assolutamente convinto della propria strada nel momento della nomina di giudice a latere del maxi processo. Grasso rievoca l’incontro con Falcone e Borsellino, i tentativi di delegittimazioni, fino ai particolari anche simpatici che costellano il lato organizzativo di un processo che per a prima volta vedeva la mafia dietro alle sbarre. L’esperienza di Grasso copre la storia di Cosa Nostra, passando dal maxiprocesso alla strategia eversiva dell’ala militare, per giungere all’epoca Provenzano. Un modo per narrare dei cambiamenti di comportamento di Cosa Nostra e della scelta di adottare una strategia di invisibilità che di certo, sottolinea Grasso con fermezza, non significa scomparsa o sconfitta della mafia. “Per non morire di mafia” non è quindi solo un diario ma anche un’invocazione a non sottovalutre il problema e ad attivarsi civilmente. Infatti, il procuratore Nazionale, dopo un’attenta analisi non solo della presenza di Cosa Nostra ma anche delle altre fortissime mafie autoctone italiane, ‘ndrangheta in primisi, ribadisce la necessità di tenere ben presenti le problematiche e le potenzialità di un progetto antimafia che deve parlare, discutere di mafia e infine reagire. Per non pagare in futuro i silenzi di questi giorni, capaci di rafforzare la simbiosi tra mafia, economia e potere. E rilancia ancora una volta una cultura della legalità che non sia solo semplice osservanza di leggi e regole ma «un sistema di principi, di idee, di comportamenti che deve tendere alla realizzazione della persona, della dignità dell’uomo, dei diritti umani, dei principi di libertà, eguaglianza, democrazia, verità e giustizia come metodo di convivenza civile». Modi di non morire di mafia che oggi esistono nel nostro paese, nell’associazionismo, nella responsabilità civile di chi da anni si mette in gioco; Grasso li sottolinea e rilancia con loro un grande stimolo a tutta la cittadinanza italiana. Per non sottovalutare, per non far passare sotto silenzio.

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