Gerusalemme in marcia per la pace
Erik attende che la traduttrice
seduta di fianco a lui finisca di riportargli quando
è stato appena detto da Yousef, un ragazzo giovane che viene da Gaza
e che da due anni è in Italia a Rimini. Un sorriso e Erik, l’israeliano
stringe affettuosamente la spalla di Youssef, palestinese.
«Quando ho conosciuto qualche giorno fa Erik sono finalmente riuscito
a capire che un israeliano non è solo un soldato. Per i palestinesi
è faticoso immaginare un israeliano civile. Conoscerlo
è stata una grande esperienza». Erik Yellin ha qualche anno in più,
capelli brizzolati, e con tono pacato ma deciso dice:
«We have to stop this senseless war, it’s the same pain». Bisogna
fermare questa guerra insensata, è
lo stesso dolore da entrambe le parti.
Il progetto è ambizioso e
significativo, portare una marcia per la pace come la collaudata Perugia-Assisi
dall’Umbria alla Terra Santa. Per rilanciare l’idea del dialogo,
la necessità per l’Europa di farsi importante mediatore nel conflitto
israelo-palestinese e la voglia di unire due popoli.
Tavola della pace , Coordinamento
Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, Piattaforma
delle Ong per il Medio Oriente presentano a Roma quella che in ottobre,
dal 12 al 16, dovrebbe essere una rivoluzionaria azione civile. E lo
fanno con le voci di chi, da quei territori proviene. Erik Yellin, israeliano
presidente dell’associazione pacifista “The Other Voice” e Youssef
Handoun, giovane educatore palestinese del Remedial Education Center,
da due anni in Italia per alcuni corsi formativi.
Una marcia per ricostruire
le speranze che ora mancano. Questo il senso dell’intervento di Flavio
Lotti, coordinatore dellaTavola della pace, che ammonisce della necessità
tempestiva di «rompere le catene della complicità per affrontare finalmente,
dopo 60 anni, una situazione che ora sta attraversando il suo momento
più grave». La fragilità della situazione è direttamente riconducibile
al pensiero ormai comune di un «conflitto perenne che però non viene
mai affrontato, di cui si discute quando scorre il sangue ma che poi
rimane fermo nel cassetto quando si potrebbe agire». Il monito è rivolto
soprattutto all’Europa e al mancato intervento come terza parte, fondamentale
per avviare una mediazione risolutrice tra i due popoli. «L’idea della
marcia della pace, appoggiata da ong che operano sul territorio, vuole
essere uno stimolo per l’Europa a cogliere le proprie responsabilità
e a cogliere con mano ciò che accade in quei territori; al contempo
intende ricostruire quelle dinamiche di speranza che ora sembrano ridotte,
annullando sul nascere le precondizioni necessarie per un accordo».
Questo punto di non ritorno
traspare anche dai racconti di Erik e Youssef. Quest’ultimo parla di
una «fiducia ormai inesistente nella comunità internazionale e in
quanti si potrebbero spendere per cambiare le cose». Una tendenza che
anche Yellin sente in maniera forte proponendo un «dialogo diretto
che sappia rendere la comune esperienza della sofferenza il cemento
di militanza civile per costruire il futuro». E la situazione delineatasi
negli ultimi mesi non appare promettente. Spenti i riflettori dovuti
al conflitto guerreggiato i problemi di assistenza umana e medica sono
ancora molti. Lo sottolinea Sergio Bassoli, coordinatore della Piattaforma
delle Ong per il Medio Oriente che chiede con forza «alle autorità
e alla diplomazia di accordare aiuti umanitari, spesso filtrati e mai
giunti a destinazione, per costruire una base di convivenza e di diritti
umani». Sperando che l’informazione segua con interesse gli eventi.
Riccardo Chartroux di Articolo 21 porta l’appoggio dell’associazione
alla causa e lancia l’idea di un monitoraggio completo della copertura
mediatica degli eventi israelo-palestinesi a partire dalla marcia della
pace a Gerusalemme, ponendo l’accento sulla necessità di non far dormire
l’informazione ora che la comunicazione tra le parti e verso il mondo
è più che fondamentale.
In via di definizione la marcia
sarà un «percorso di condivisione e non una manifestazione contro
qualcuno, ma un impegno concreto e solidale verso le vittime del conflitto,
sia israeliani che palestinesi, che verranno nei giorni di ottobre incontrati
da chi parteciperà alla marcia» sottolinea Lotti nel finale. Affinché
non solo in noi ma anche in loro maturi l’idea che il «common suffering»,
il soffrire comune, di cui parlava Erik, sia la connessione per un atto
concreto a livello civile.
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