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“Toghe rosso sangue”

Di Maria Natalia Iiriti il . Calabria, Interviste e persone

Martedì 5 maggio, presso la sala conferenze del Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, economiche e sociali della Facoltà di Giurisprudenza Università Mediterranea a Reggio Calabria la Fondazione intitolata all’ex sindaco reggino “Italo Falcomatà” ha organizzato la presentazione del libro “Toghe rosso sangue – La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia” scritto da Paride Leporace, direttore del “Il quotidiano della Basilicata”, presenti l’autore, Felice Costabile, vice direttore del Dipartimento, Rosetta Neto Falcomatà, presidente della Fondazione, Luigi De Sena, Vicepresidente Commissione Parlamentare Antimafia, Tonino Nocera, pubblicista, Antonio Prestifilippo, giornalista.  Un’opera che ricostruisce le vicende di 26 giudici uccisi nell’esercizio delle proprie funzioni nel corso di un quarto di secolo. Un libro che ci aiuta a comprendere il nostro Paese alla luce delle stragi e del sacrificio di uomini di giustizia. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Da quali
stimoli nasce questo libro?

Ho scritto
questo libro per caso, con quello che definisco null’altro che intuito
giornalistico. Alcuni anni fa avevo sulla scrivania il testo dell’ANM
(Associazione Nazionale Magistrati, ndr) con l’elenco di tutti
i magistrati uccisi coi fiori tricolori. Ero in redazione e chiesi a
una giovane collega: “Tranne Falcone e Borsellino, quanti nomi di
questo manifesto conosci?”. Lei legge tutti i nomi e mi risponde:”Nessuno”.

Su questa risposta
ho avuto un’intuizione che: si era persa completamente memoria di
questa storia, che non era una storia qualsiasi. Nessun Paese occidentale
ha avuto, fra i magistrati, un così alto numero di vittime legate al
terrorismo e alla mafia. Pare che nemmeno in Colombia ci sia un numero
così alto. In Germania sono due i magistrati uccisi, in Francia nessuno.
Nemmeno nella Spagna  delle stragi dell’Eta si registra un numero
così alto di vittime. Nel nostro Paese era successa una cosa enorme
di cui non c’era assolutamente percezione nei giovani di quello che
era accaduto e probabilmente anche in chi l’aveva vissuto, che l’aveva
un po’ dimenticato.

Ho scritto
questo libro da giornalista. Chi scrive per i giornali cerca di rendere
pubbliche delle cose per capire che c’erano nomi ignoti limitati al
ricordo delle famiglie delle vittime che, spesso, vivono in solitudine
un grande dramma. 

Nel libro
racconti anche la normalità dei giudici uccisi: la scarpa bucata del
giudice  Mario Amato, il giudice Galli che viaggia in autobus.
Nell’umanità emerge un quadro di profonda solitudine. Quanto
è stata determinante la solitudine per la morte dei magistrati?

Per la stragrande
maggioranza molto, perché operavano in situazioni difficili. Non sentirsi
tutelati, a volte dai superiori, a volte dai collaboratori, deve essere
stata sicuramente una situazione esistenziale terribile, la consapevolezza
di poter morire. Da punto di vista politico – sociale ha pesato, perché
sia nel periodo del terrorismo, sia nella Sicilia degli anni Ottanta
e Novanta, abbiamo delle aree contestuali profondamente diverse dall’Italia
del ’93 che tifava per i giudici, anche se c’erano dei germi. Quando
muore Gian Giacomo Ciaccio Montalto, per esempio, la scoperta clamorosa
è questo tributo di folla che omaggia il giudice ucciso.

Per quale dei magistrati uccisi hai incontrato maggiori difficoltà
nella ricostruzione degli eventi?

Per parecchi,
perché su alcuni non era stato scritto nulla. Mi riferisco, in particolare,
al giudice Nicola Giacumbi a Salerno, i giudici uccisi dalla BR e che
sono finiti fra le pieghe del caso Moro che è una storia enorme e che,
quindi, sovrasta vicende come quelle di Minervini o degli altri che
sono stati nel Moro Ter e hanno operato nelle periferie. Nessuno conosce
la strage di Pàtrica (dove trova la morte il giudice Fedele Calvòsa,
ndr
). In questi casi mi hanno aiutato molto i parenti, la lettura
dei giornali e gli atti processuali. La ricerca è stata difficile però
appassionante. E’ durata molto. E’ stato il momento più bello del
lavoro.

A chi
consigli la lettura di questo libro?

Non ho la pretesa
di consigliare. Vedo che ai giovani interessa molto; quando vado nelle
scuole gli studenti hanno grande attenzione: quelli che vogliono fare
i magistrati mostrano un interesse particolare, così come quelli che
vogliono diventare giornalisti e ancora chi crede in un’Italia delle
regole.

Come giornalista
sento di avere un dovere quando vedo che suscito delle discussioni che
ancora oggi vanno capite. Il 5 maggio 1971, esattamente ventotto anni
fa veniva ucciso il giudice Scaglione. Ieri la famiglia ha dato una
nota all’AGI in cui si ribadisce che Scaglione era un magistrato di
altissimo livello, riconosciuto vittima della mafia. Questa nota la
pubblicherò nella nuova edizione del libro. La famiglia difenda la
memoria di Scaglione dove non vuole ombre su questo magistrato, che
pure di ombre ne ha attirate.

Ancora chi
ha ucciso Scaglione, non sappiamo chi ha premuto il detonatore che ha
provocato la strage di via D’Amelio.

Sapere questo
è fondamentale per capire cosa è successo nella mafia siciliana. Ognuna
delle storie di questi giudici è emblematica, con le sue storie di
periferia, con le sue storie eroiche, anche con le sue storie di eroi
per caso, di chi si è trovato in situazioni strane e romanzate. Mi
sono sentito in dovere di fare qualcosa: raccontando quotidianamente
delle vicende ho sentito un dovere verso il mio Paese, verso queste
persone, verso le giovani generazioni. Ho impiegato degli anni, per
i miei impegni, per le mie pigrizie, però oggi mi ritrovo ad uno dei
miei scopi principali: ritrovarmi in una comunità che è figlia di
questi tempi, variegata. M’invitano da tante parti, da Rifondazione
comunista a gente di destra, associazioni di vario tipo, il posto reale
di questo Paese che rimane fuori dal dibattito politico. In queste ore
si discute dei fatti privati di due signori: faccio sommessamente notare
che di una bambina uccisa a un posto di blocco dai nostri militari non
se ne parla molto.

Su quale
magistrato senti di dover scrivere ancora?

Quello che
mi muove molto è Paolo Adinolfi, perché è la storia più rimossa.
Non compare sul manifesto dell’ANM dei magistrati uccisi perché ufficialmente
è uno scomparso.La famiglia non ha ricevuto neanche questo onore. Hanno
solo avuto il riconoscimento dopo anni di battaglie  che probabilmente
questo magistrato, come è plausibile, sia stato sequestrato e ucciso
per quello che aveva scoperchiato. Essendo un giudice civile paga questo
prezzo, veramente altissimo, di rimozione.

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