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Il grido di un imprenditore
il silenzio della politica

Di Valeria Meta il . Lazio

Alla fine l’Elispanair ha gettato la spugna. Dopo l’incendio che nella notte tra domenica e lunedì ha distrutto alcune macchine escavatrici dell’impresa di spostamento terra, il titolare Spanò ha detto basta. Con una dichiarazione choc ha denunciato l’impossibilità di continuare a lavorare nella piana di Fondi, dove il settore dell’edilizia è saldamente nelle mani di un cartello camorristico che mal sopportava i prezzi concorrenziali praticati dall’Elispanair e ha usato il fuoco per rendere chiaro il messaggio.

Esasperato da una situazione ormai insostenibile, Spanò ha deciso di abbandonare il campo; un gesto che ha il sapore amaro della sopraffazione, ma che deve soprattutto aprire gli occhi dell’opinione pubblica su una realtà irrimediabilmente compromessa. Dalla Prefettura rispondono costernati che intensificheranno le operazioni di contrasto alla criminalità, nonostante siano pienamente consapevoli che la drammatica piega degli eventi non dipende da loro mancanze. Le responsabilità vanno cercate altrove. Più in alto. Al di là delle amministrazioni locali, in cui la collusione con i clan è pratica diffusa.

Chi avrebbe in mano gli strumenti legislativi per intervenire siede nel Consiglio dei Ministri; al Viminale la richiesta di scioglimento del Comune di Fondi giace dimenticata in qualche cassetto, mentre di fronte all’immobilismo delle istituzioni il sindaco di Castel Volturno, stanco delle collusioni con la camorra che si era trovato a fronteggiare da solo, ha scelto di rassegnare le dimissioni.

È un episodio che, come sottolinea il coordinatore di Libera Lazio Antonio Turri, la dice lunga sui criteri adottati dal governo in materia. Sciogliere Fondi significherebbe infatti ammettere che c’è una classe politica locale – non importata, non proveniente dalla terra di camorra per antonomasia – composta da prestanomi dei clan criminali. Perché, precisa Turri, “non si tratta di infiltrazioni, ma di un cancro le cui metastasi hanno colpito gli organi locali e il la locale criminalità.”

 La Quinta Mafia non è soltanto una suggestione giornalistica, ma un’organizzazione mafiosa reale e con delle caratteristiche che la distinguono sia dalla camorra campana che dalla ‘ndrangheta calabrese: è una mafia con una spiccata coloritura economica e politica, che attraverso l’ingente volume degli affari che muove mira a un obiettivo preciso. Roma. È sulla Capitale che confluiscono gli interessi dei clan tanto nel narcotraffico quanto nel ciclo del cemento.

Roma, piazza storica per il commercio di stupefacenti e paradiso dei costruttori edili, roccaforte della potentissima banda della Magliana, centro nevralgico del potere politico, ebbene Roma è la posta in gioco nelle strategie della Quinta Mafia. Non la realtà ristretta del Sud pontino (come d’altronde sta emergendo nel processo Anni 90 in corso a Latina), ma il Lazio tout-court. Una prospettiva inquietante eppure inequivocabile, che nel silenzio della politica nazionale trova un motivo di rafforzamento; il governo continua a rifiutarsi di prendere posizione, a chiudere gli occhi su ciò che in parte sta già accadendo: l’attacco a Roma.

E allora il fatto che la magistratura antimafia e la Prefettura di Latina vengano lasciate sole a combattere contro un nemico che soltanto con un intervento a livello politico centrale potrebbe essere sconfitto, è già una forma di connivenza. E per quanto evocatore di foschi presagi, il silenzio – questo silenzio ostinato che non si cura del grido di un imprenditore –  suona come un tacito assenso.

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