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Lotta al pizzo: chi rischia e chi si nasconde

Di Claudio Fava* il . Sicilia

Immaginate d’essere un commerciante palermitano, uno di quelli che la schiena non la vogliono piegare e che ha deciso perciò di non versare un centesimo agli esattori del racket. Immaginate poi di ritrovarvi in un’aula di giustizia, di fronte a cinquanta mafiosi e cumparielli che avete contribuito a far arrestare: loro lì, al banco degli imputati; voi qui, tra i testimoni di giustizia, consapevole che la condanna di quei cinquanta signori dipende anzitutto dalle cose che direte.

Immaginate infine che il banco accanto al vostro sia vuoto. Seduto a quel banco doveva esserci il sindaco di Palermo Diego Cammarata, parte civile con i suoi avvocati. Solo che gli avvocati del comune non sono venuti, il sindaco nemmeno e il tribunale ha dichiarato decaduta la sua costituzione di parte civile. Morale: voi siete lì, a rischiare la pelle. La vostra città no. E in gabbia, mafiosi e cumparielli già arrotano il loro sorriso.

Succede a Palermo. Succede in coda a uno dei più straordinari processi che Cosa Nostra abbia mai subìto, con molti commercianti pronti a fare fino in fondo la loro parte, non più rassegnati, non più ammutoliti. Succede in una città che, in fatto di lotta alla mafia, trova sempre il tempo per celebrare e celebrarsi fra liturgie, convegni e corone di fiori. Quando invece la mafia c’è da andarla a guardare in faccia, magari schierando gli avvocati del comune in tribunale, c’è sempre un impiccio, un ritardo, un refuso… In Sicilia, sui nostri refusi Cosa Nostra campa da cinquant’anni. Sazia, felice e incredula delle nostre minchionerie. Ve ne racconto un’altra, anch’essa di pochi giorni fa.

C’è un’associazione, in Sicilia, si chiama «Addio Pizzo» e l’animano i ragazzi che per primi ebbero il coraggio di scrivere ciò che per pudore nessuno pensava più: un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità. La stagione dei processi nasce anche dalla provocazione di quel manipolo di studenti. Che non si sono fermati al “gesto” ma hanno costruito una rete di rapporti e di solidarietà, pratiche sociali efficaci, banche dati, militanza civile (perché l’antimafia si fa soprattutto così: mettendo in comune esperienze, denunce e testimonianze).

Bene, a Catania l’associazione «Addio Pizzo» da due giorni è senza un tetto: sfrattata dalla Confesercenti che l’ospitava senza troppa convinzione, in attesa di ricevere dal prefetto uno dei molti beni confiscati ai mafiosi, quei ragazzi sono per strada. Ecco lo stato dell’arte: a un’antimafia esibita come status sociale perfino nei manifesti elettorali di taluni candidati corrisponde per infelice simmetria una lotta alla mafia di cose utili, di gesti coraggiosi ma di infinita solitudine.

*www.claudiofava.it

 

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