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Obama-Messico, verso una nuova partenza?

Di Stefano Fantino il . Internazionale

Prima in marzo Hillary Clinton, in qualità di Segretario di Stato. Ora il presidente Barack Obama in persona. Al centro sempre il problema cruciale della droga e dei narcotrafficanti. I potenti degli Stati Uniti hanno fatto tappa in Messico per cercare nuove intese con le controparti centramericane in vista di una comune linea per osteggiare la straripante ondata di violenza dei narcos e, soprattutto per l’occhio americano, promuovere una strategia che limiti l’ingresso della cocaina in territorio a stelle e strisce. Pare chiaro innanzitutto comprendere quali siano le reali intenzioni degli Stati Uniti riguardo il modo di approcciare la materia, da sempre affrontata con il cipiglio punitivo senza sprecare molto fiato per la prevenzione tout court.   La visita della Clinton da questo punto di vista aveva paventato nuovi spiragli nel modo di concepire un aiuto americano al Messico. Il segretario di Stato aveva dichiarato che i «i trafficanti messicani agiscono motivati dalla domanda di droga negli Stati Uniti» ponendo così l’accento sull’errato modo di impostare le controffensive istituzionali a un problema da affrontare soprattutto dal lato preventivo.

L’arrivo a Città di Messico di Obama a metà di aprile ha rinfocolato le vicendevoli voglie di mutuo aiuto e rimesso al centro del discorso la cosiddetta Merida Initiative, il piano di soccorso Usa  a Messico e Centro America. Non certo un esempio di cooperazione preventiva. Dalle parole di Calderòn si evince, dopo la conferenza stampa, che «entrambi i governi hanno riconosciuto il valore della Merida Initiative come punto di partenza per rafforzare la cooperazione assieme alla voglia di andare oltre per liberare la società dalle attività criminali». L’iniziativa annunciata il 22 ottobre 2007 e convertita in legge nel giugno 2008 prevede una collaborazione tecnico-logistica per garantire la perseguibilità dei narcos, la confisca della droga e le operazioni di lavaggio del denaro.  L’idea di impostare in questo modo il contrattacco ai narcos nasconde però i limiti di una campagna che in sé non permette di garantire il raggiungimento di due obiettivi: da un lato quello impellente di far diminuire la vampa di violenza e dall’altro quella di costituire un vero deterrente per lo smercio e il consumo di droga negli Stati Uniti. Anni di politiche di contrasto e confisca non hanno intaccato molto la disponibilità di polvere bianca negli Usa, e se nel 2007 l’offerta, stando ai dati del National Drug Intelligence Center (NDIC), pareva scendere ora è ripresa a salire.

Insistere su una azione militare sull’offerta di cocaina fa perdere di vista il vero snodo: l’offerta esiste in virtù di una domanda che è sempre stata alta negli Stati Uniti e che non è stata adeguatamente affrontata con politiche educative e sociali volte a ridurla.  E se rimane alta è anche effetto di una nuova tendenza del mercato che, a parità di purezza, riesce a ridurre il prezzo a livelli molto bassi e favorire un consumo enorme di polvere bianca. I dati arrivano dall’ONDCP (Office of National Drug Control Policy), organismo federale Usa, che indica in 120 dollari americani il prezzo al grammo per la cocaina. Un prezzo bassissimo che permette di asserire che la politica di freno dell’offerta dell’amministrazione Bush non abbia sortito effetti importanti, come riconoscere, ancora una volta, l’effetto del plan Colombia, incapace di eradicare la produzione sudamericana di coca, in netto rialzo negli ultimi anni.   

Un fiume di cocaina molto richiesto che continua a confluire negli Usa, al punto che alcuni magistrati messicani, durante gli incontri con le controparti statunitensi hanno messo in luce come la cooperazione tra investigatori non sia volta a spezzare questa domanda di droga.  «La posta in palio è l’abilità del Messico di mantenere pace e tranquillità per i suoi cittadini. Perciò il nostro obiettivo non è porre fine al traffico di droga, ma rimuovere potere da quei gruppi di persone e la loro abilità di confiscare e rapire il nostro diritto a vivere in pace». Parole del procuratore generale messicano Eduardo Medina-Mora. Che sottolineano come un approccio repressivo ai narcos sia utile solamente per garantire ordine interno e non sia di per sé un modo per ridurre il narcotraffico.  Non sarebbe infatti la prima volta che le rotte della droga cambiano in virtù di una particolare pressione militare su una zona considerata snodo cruciale. Da qui il problema di considerare in maniera indipendente il problema dei narcos da una parte e il consumo di cocaina dall’altra. Fermare le barbarie dei primi non garantirebbe che uno spostamento dei traffici altrove.

Lo hanno bene intuito i politici degli stati insulari dei Caraibi. Barbados, Guyana, Trinidad & Tobago hanno chiesto agli Usa di essere inclusi nelle politiche di contrasto ai narcos, per la paura di diventare lo scenario e il crocevia di futuri smerci di sostanze illecite per raggiungere il mercato statunitense. Una voce che Obama dovrà ascoltare, ferma restando la necessità di non affrontare il problema solo da questo punto di vista. Se il neopresidente e il suo entourage avevano necessità di altre sfide, quella del narcotraffico si è da subito mostrata come  una battaglia molto dura che l’amministrazione Usa non potrà più ignorare.

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