NEWS

27 anni fa, l’omicidio La Torre

Di Giuseppe Bascietto* il . Sicilia

Ci fu un uomo, che nato in Sicilia, osò sfidare il potere di Cosa Nostra. Quest’uomo era Pio La Torre. Una figura storica dell’antimafia civile e politica e autore di vere e proprie rivoluzioni legislative. A quattro anni, lui figlio di contadini poverissimi e analfabeti, s’impose alla famiglia e decise di andare a scuola.  Lo comunicò al padre in una calda giornata d’estate con quattro parole secche e fulminanti. “Voglio andare a scuola”. Il padre sul momento non reagì. Ci pensò su qualche secondo; poi buttò  la zappa a terra, smise di lavorare, iniziò a gridare e corse verso casa. Vuole andare a scuola! Borbottava. Non se ne parla. Lui dovrà fare il contadino come me, i suoi nonni e i suoi bisnonni!. Il dado era tratto. Pio si ribellò al padre e scelse la cultura come strada per il riscatto sociale. A diciassette anni s’iscrisse al partito comunista. Diventato esponente di primo piano del PCI, nel 1979 Enrico berlinguer lo aveva chiamato nella segreteria nazionale, presentò un disegno di legge, che ancora oggi porta il suo nome, che introdusse l’articolo 416 BIS del codice penale. Nasce così la prima vera legislazione contro la mafia che codifica il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Da quel giorno i magistrati poterono istruire i processi di mafia. Figlio di questa intuizione legislativa il maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1986 che porta alla sbarra l’intera cupola di Cosa Nostra.

Una storia italiana. Per questo la figura di Pio La Torre non rappresenta solo un fatto di cronaca. È  qualcosa di più. Investe la società italiana, sconvolge il PCI, travolge la politica nazionale ed entra di prepotenza nella Storia del nostro paese. Per prima cosa, Pio La Torre, è un uomo, non solo un personaggio. Non solo una vittima innocente della mafia. E’ un uomo politico che  a conoscerlo, a leggerne i discorsi, i saggi, i libri, a vederne le fotografie, da quelle di quando viene arrestato a Bisacquino in provincia di Palermo per l’occupazione delle terre a quelle di quando si trova disteso sul tavolo dell’obitorio, ti interessa, ti coinvolge, ti appassiona tanto da costringerti a chiedere, anche a distanza di 27 anni, cosa c’è dietro la sua morte.  Sotto il profilo legale il caso di Pio La Torre è risolto. Ci sono gli esecutori materiali, i mandanti, condannati in tutti i gradi di giudizio. Abbiamo i colpevoli, tutto è chiaro, il caso è chiuso. Ma qualcosa non torna. Per capire bene, bisogna conoscere l’uomo La Torre,  analizzare e spostare l’obbiettivo sullo scenario e il contesto che lo circonda.

Gli anni ottanta; la crisi della politica con la fine, in Sicilia, del patto di unità autonomista sperimentato da Achille Occhetto nella seconda metà degli anni settanta e in Italia del governo di unità nazionale che si era costituito dopo l¹omicidio di Aldo Moro; un ambiente, quello palermitano, mafioso e potente come sfondo; gli omicidi eccellenti di magistrati, poliziotti, politici e giornalisti; l’inizio di una delle guerre di mafia più cruente  della storia della Repubblica che fa esplodere gli equilibri interni a Cosa Nostra e dove la battaglia per l’egemonia viene vinta da un gruppo, quello dei corleonesi, che ha annientato nel sangue tutti gli avversari. La costruzione della base missilistica di Comiso che fa capire a Pio La Torre che si tratta di un’ affare che avrebbe spinto la mafia a metterci le mani.  E poi la volontà e l’intenzione, dopo la grande manifestazione di Comiso, di portare a Palermo centomila persone contro la mafia. Ma c’è altro  che rende il caso  La Torre importante. Ed è la consapevolezza assoluta che senza una battaglia aspra contro a mafia non ci può  essere alcuna azione politica. Questa convinzione lo ha accompagnato attraverso le varie fasi della sua vita pubblica e privata.

Da quando giovane dirigente della CGIL a Corleone stringe la mano, congratulandosi per le indagini svolte per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, al giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era il 1949. Insomma politica, soldi e  mafia: ecco la santissima trinità che Pio La Torre cercò di profanare, sapendo parlare con il linguaggio della povera gente. La lotta alla mafia era la sua ossessione, il suo chiodo fisso che nel corso degli anni lo porterà a sviluppare tesi, ma soprattutto a creare strumenti di lotta e di contrasto per i magistrati e le forza dell’ordine. Un esempio tra i tanti, la legge che introduce il reato di associazione mafiosa(416 bis del codice penale) e permette le indagini patrimoniali.  Ecco perché è necessario ricordare la figura di Pio La Torre. Perché lui incarna la politica che, attraverso le leggi, diviene realmente strumento al servizio del paese e per rendere omaggio, anche se tardivo, al sacrificio di una persona per bene. E allora proviamo a raccontarla senza tesi precostituite, versioni o pregiudizi politici, ma soltanto mettendo in fila tutto quello che è certo e tutto quello che non lo è. Anche perché certe storie bisogna tenerle bene a mente.  Nato a Palermo nel 1927, nella terra dei vespri e degli aranci, a 4 anni, lui figlio di bracciante, s’impone alla famiglia e decide di andare a scuola, a 15 anni entra nel PCI, a vent’anni  è già un dirigente prima della Confederterra, poi della Cgil e quindi del Partito comunista. Nel 1950 è arrestato e tenuto in galera (carcere preventivo!) per un anno e mezzo, accusato di avere organizzato l’occupazione con i braccianti e con i contadini senza terra di un feudo nel palermitano.

“Uno degli obiettivi che il nemico si prefigge chiudendoci in carcere – scriverà lucidamente dalla cella dell’Ucciardone a Paolo Bufalini – è quello di strapparci alla lotta e isolarci da quel movimento che è la fonte di ogni nostro pensiero e azione”. Sarà segretario regionale della Cgil, e nel 1962 verrà eletto segretario regionale del partito. Intanto fa parte del Comitato centrale del Pci già da due anni. E nel 1969 è chiamato a Roma per ricoprire incarichi nazionali: la direzione prima della commissione agraria e poi di quella meridionale. Più tardi entrerà nella segreteria nazionale, direttamente su proposta di Enrico Berlinguer, in considerazione delle sue doti politiche, d’intuito e di organizzazione. Ma c’è un momento-chiave nella vita di Pio La Torre: nell’81, quand’è deputato a Montecitorio già dal ’72, chiede di tornare in Sicilia dove torna ad assumere la responsabilità di segretario regionale del partito. 

La Torre è consapevole della gravità della situazione nell’isola. Tre elementi alimentano il suo allarme: la crisi economica, la criminalità mafiosa (è stato lui a stendere la relazione di minoranza del ’76 della commissione parlamentare antimafia), la minaccia, rappresentata per la pace nel Mediterraneo e per la stessa Sicilia, della costruzione della base missilistica di Comiso contro la quale lancia la campagna per raccogliere un milione di firme in calce ad una petizione al governo (un suo intervento a sostegno della campagna, scritto due giorni prima dell’assassinio, apparirà postumo su “Rinascita”). Il ritorno di Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione politica e della finanza internazionale. E’ in questo quadro che matura la decisione di eliminarlo.

27 anni fa. Siamo al 30 aprile 1982. Alle sette suona la sveglia. Pio si alza. Si prepara il caffè e se lo versa. Per qualche secondo indugia col cucchiaino sul bordo della tazzina, poi annusa l’aroma e inizia a sorseggiare. Intanto alla periferia est di Palermo, intorno alle sette, all’interno di un garage, si incontrano Pino Greco, detto Scarpuzzedda, Salvatore Cocuzza, Gaetano Carollo, della famiglia di Resuttana, Nino Madonia, Antonino Lucchese, Mario Prestifilippo e un membro della cosca dei Galatolo. Quasi tutti portano dei jeans, una maglietta o una camicia e giubbotti con le tasche interne abbastanza larghe da contenere le colt 45. Nel garage ci sono pistole e mitragliatori thompson; armi in dotazione alle forze militari statunitensi, che sparano proiettili calibro 45 ad altissima capacità di penetrazione. Il sole si leva. Nell’aria il profumo degli alberi, uno stormo di uccelli che volteggia. Dalle case cominciano ad uscire uomini e donne che vanno a lavoro, accompagnano i bambini a scuola. Sembra la mattina di un giorno qualunque. I sei uomini stanno preparando un agguato. Ad impartire gli ordini è il più autorevole tra i killer di Cosa Nostra, Scarpuzzedda. Parcheggiate fuori dal garage, una Honda 650 con il sellino modificato per sistemare la mitraglietta e una Fiat Ritmo, rubate il 28 e il 15 aprile. Scarpuzzedda guarda i visi di Cocuzza, Lucchese, Carollo, Madonia e dell’uomo dei Galatolo per accertarsi che tutti lo vedano e lo sentano.   «Siete pronti?»   «Siamo pronti» rispondono uno alla volta.   «Il crasto ormai ha le ore contate.»

I Killer. A parlare è Gaetano Carollo  che da un mobile prende una mitraglietta Thompson e una colt 45.   «Se tutto va liscio, per le 9 e 30 abbiamo finito» dice Scarpuzzedda. «Oggi facciamo il botto. Vedrete quello che succederà.» «Ma perché, scusa, chi dobbiamo far fuori?» chiede Cocuzza.  «Un rompicoglioni. Ti basta sapere solo questo. Tu devi eseguire gli ordini e non fare domande inutili.»   Cala il silenzio. La voce con cui Scarpuzzedda pronuncia quelle parole sembra contenere una minaccia non tanto velata. Insomma non bisogna fare domande soprattutto quando ad impartire gli ordini è Totò u Curtu. Scarpuzzedda prende la mitraglietta e una pistola e Lucchese solo una pistola. Sarà Lucchese a guidare la moto con dietro Scarpuzzedda. Gli altri, sempre con pistola e mitraglietta, li seguiranno con la Fiat Ritmo. Per arrivare sul luogo dell’agguato i killer devono attraversare Palermo. Partono presto, non vogliono trovarsi bloccati nel traffico. Escono dal garage alle otto meno un quarto. Rosario Di Salvo sta per uscire di casa. Dopo colazione, saluta Rosa. Le bambine escono con lui, come ogni mattina.

Pio e Rosario. Prima di andare a prendere Pio, Rosario le accompagna a scuola. Dopo averle fatte salire in macchina, Rosario si gira verso la finestra di casa. Dietro c’è la moglie, che gli fa un cenno con la mano e gli sorride. Lui la saluta sorridendo, e parte. Rosa è ancora alla finestra, sta guardando l’auto scomparire risucchiata dai vicoli di Palermo. Dopo aver lasciato le bambine a scuola, all’altezza di corso Pisani, Rosario incrocia il compagno Ganci. Gli suona per attirare la sua attenzione. Lui risponde come a dirgli, “ci vediamo più tardi al partito”. Rosario annuisce e ingrana una marcia, per andare più veloce.  Quando arriva a casa di Pio, parcheggia l’auto di fronte al portone d’ingresso. Prima ancora di scendere Rosolino Cottone, un compagno che doveva fare dei lavori in casa di Pio, gli bussa sul finestrino per salutarlo.  Rosario Scende dall’auto e insieme entrano nel cortile del palazzo. L’appartamento di Pio è qualche piano più su. Rosario suona il campanello. Pio tarda a rispondere. Rosario insiste, fino a quando la porta non si spalanca. Una volta dentro prendono  il caffè, chiacchierano ancora per una mezz’ora, poi  escono di casa. Appostato sull’altro lato della strada c’è un ragazzo alto, con gli occhiali da sole a bordo di una Vespa 50 di colore bianco. Pio offre un passaggio a Rosolino.  «Grazie Pio, ma devo andare qua vicino. Preferisco fare due passi a piedi.»  «Come vuoi.»  «Rosario, andiamo. Al partito mi stanno aspettando per la riunione.»

L’agguato. Messa in moto la Fiat 131, si muovono da Via Carapelli, costeggiano la Caserma Andrea Sole. All’incrocio con via Cuba, prima di imboccare via Generale Turba, Rosario si ferma un attimo  per lasciare passare un gruppo di dipendenti del Genio Militare.   «Accidenti!» esclama Pio portandosi una mano alla fronte.    «Mi sono dimenticato di chiamare Giuseppina! Sicuramente avrà provato ma stamattina il telefono è stato sempre occupato.»   «Appena arrivi al partito, la chiami.»  «Sì, sì, è inutile tornare indietro.»   Rosario riprende la marcia e dallo specchietto retrovisore vede i dipendenti del Genio Militare entrare in un bar.  Pio e Rosario imboccano via Generale Turba. La percorrono fino all’ingresso della caserma. In senso opposto al loro, una Fiat 126 di colore chiaro. Di fronte alla caserma, una serie di case diroccate e disabitate. Più avanti, in piazza Generale Turba, una signora è affacciata al balcone. Sono le nove e ventitré e, anche se il sole è forte, non c’è ancora il caldo afoso di agosto.  Alle due estremità di via Generale Turba i killer sono appostati già dalle 8 e 30. Hanno impiegato tre quarti d’ora per arrivare sul luogo dell’agguato. Lungo il tragitto hanno pure preso un caffè. Controllano le armi e guardano gli orologi. Il primo ad accorgersi dell’auto guidata da Rosario è Scarpuzzedda. Allerta gli altri. La prima a partire è la moto. Lucchese ingrana la prima, la seconda. La moto acquista velocità. Si accosta dietro la macchina di Pio. Poi, improvvisamente, la supera e le taglia la strada frenando di colpo, impedendogli di continuare. Contemporaneamente, la Ritmo si affianca sul lato destro della 131. Scarpuzzedda infila una mano sotto la sella per prendere il mitra: lo impugna e lo punta su Pio.   «Rosario!» grida Pio «Ci vogliono ammazzare!»  Rosario tenta la marcia indietro, ma non ha il tempo di farla che la Ritmo gli è addosso. Gli resta una cosa sola da fare: estrarre la pistola dalla fondina. Intanto, il mitra di Scarpuzzedda si inceppa, Cocuzza si accorge che Di Salvo sta tirando fuori la pistola. Scatta velocissimo, in un secondo scende dall’auto.  Grida agli di tenersi pronti a scappare. Fa il giro, si avvicina  e spara: uno, due, tre, quattro colpi di pistola. Rosario risponde al fuoco, riesce a sparare alcuni colpi. Non sa se ha ferito qualcuno. Scarpuzzedda ha sistemato il mitra e spara colpi singoli in direzione del parabrezza, mandandolo in frantumi. I proiettili colpiscono Rosario, che si accascia sul sedile. Il volto è sfigurato e pieno di sangue. La testa reclinata all’indietro, la bocca aperta. Appena si sentono i primi spari, la persona a bordo della Fiat 126 fa marcia indietro e scappa, mentre verso la fine di Via Generale Turba, i proprietari di due negozi abbassano le saracinesche. Intanto Scarpuzzedda si sposta dalla parte di Pio con calma. Pio, vedendo il killer che si avvicina, si getta con il corpo all’indietro fino a toccare Rosario, nel disperato tentativo di salvarsi. Una delle gambe la spinge fuori dal finestrino come se volesse respingere le pallottole che stanno per arrivare una dietro l’altra.

Gli ultimi attimi. L’ultima parola che riesce a gridare prima che gli sparino, è vigliacchi. E lo ripete due volte. Vigliacchi. Vigliacchi.   «La tua ora è arrivata, cornuto. Hai finito di dare fastidio alle persone perbene.»  Scarpuzzedda è di fronte a Pio, e spara. Una serie di colpi in sequenza. Quando la prima pallottola lo raggiunge, Pio muore sul colpo. Ma questo, ai killer, non basta: scaraventano sui corpi  martoriati ancora pallottole su pallottole. Scarpuzzedda è già risalito sulla moto, Cocuzza è in macchina, quando un altro impugna il mitra e inizia a sparare l’ennesima raffica.   «Muoviti, ormai sono morti!» grida Cocuzza «Ci vuoi fare arrestare tutti quanti?»   Al passo carraio della caserma il soldato di guardia entra correndo e grida: «Stanno ammazzando due persone!», grida a squarciagola «Chiamate la polizia, presto!»   Dall’interno un altro soldato lo chiama: «Vieni dentro; vuoi farti ammazzare?»  «Ma fuori stanno sparando!» «Lo so; adesso chiamiamo la polizia e in pochi minuti saranno qua.»   Alla fine della sparatoria a terra ci sono oltre trenta bossoli di mitra e di pistola. Sono le 9 e 26 minuti. Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono stati ammazzati. Alle 9 e 29, i killer abbandonano la Ritmo dandogli fuoco duecento metri più in là, vicino Passo Marinuzzi. Più avanti ancora, lasciano anche la moto. Verranno le indagini, i processi, le commemorazioni.  In ogni caso la figura di pio La Torre rimane scolpita nella memoria di questo nostro paese e ci ricorda, anche a distanza di 27 anni, quello che la politica potrebbe essere, quello che la politica dovrebbe dare.

  *autore insieme a Claudio Camarca del libro “Pio La Torre. Una storia italiana” e curatore del sito www.accadeinitalia.it

Trackback dal tuo sito.

Premio Morrione

Premio Morrione Finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale. Si rivolge a giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione.

leggi

LaViaLibera

logo Un nuovo progetto editoriale e un bimestrale di Libera e Gruppo Abele, LaViaLibera eredita l'esperienza del mensile Narcomafie, fondato nel 1993 dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio.

Vai

Articolo 21

Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

Vai

I link