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2. La mala locale e la mala d’importazione

Di Alessio Magro il . Abruzzo

Il quadro dell’Abruzzo
criminale ha tre elementi peculiari che ne hanno caratterizzato lo sviluppo:
la presenza di reti neofasciste e criminali legate alla banda della
Magliana, la capillare presenza di potenti famiglie rom dedite ad attività
illecite, il numero elevatissimo di soggiornanti obbligati spediti nella
regione negli ultimi decenni. 

I banditi della Magliana

È l’abruzzese Tony Chicchiarelli,
il famigerato falsario, il legame tra la banda di Enrico Nicoletti e
la realtà criminale della regione. Il documento apocrifo con il quale
si annunciò la morte di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, passato
alla storia come il falso comunicato numero sette del Lago della Duchessa,
fu realizzato appunto da Chicchiarelli. Storie di eversione fascista,
di manovre dei servizi deviati, di manovalanza criminale, massoneria
e mafia. Con l’Abruzzo a fare da sfondo ad alcuni capitoli di queste
vicende dagli intrecci oscuri e intricati. Perché quel Lago si trova
in provincia di Rieti, a pochi chilometri dalla provincia de L’Aquila.
Zone dove i neofascisti tenevano i loro campi di addestramento. Zone
dove latitanti e miliziani trovavano una rete di fiancheggiatori per
le loro azioni. La banda della Magliana, educata alla scuola della Cosa
nostra di Pippo Calò e della ‘ndrangheta di don Mommo Piromalli,
ha esteso nel tempo la propria azione in Abruzzo: estorsioni, riciclaggio,
usura. Attività che quel che resta della banda ha proseguito fino ad
oggi. Una buona notizia: le case abruzzesi sequestrate ad Aldo De Benedittis
ed Enrico Nicoletti diventeranno presto delle scuole. 

Gli
“zingari”.
Che le mafie in Abruzzo siano un fenomeno di importazione
è innegabile. Anche se le famiglie rom sono attive da sempre. Una presenza
che si fa sentire: racket, traffici di droga, usura. E che viene rilevata
anche dagli indicatori statistici: Pescara, L’Aquila e Chieti sono
ai primi posti nelle classifiche della penetrazione criminale, zone
dove tradizionalmente operano le famiglie “zingare”. Si tratta di
organizzazioni assimilabili a quelle mafiose: il vincolo associativo,
il controllo del territorio, i collegamenti con le altre organizzazioni
criminali. A farla da padrone sono le famiglie Spinelli ma soprattutto
Di Rocco, ormai una organizzazione affermata a livello regionale, collegata
ai camorristi del clan “Aquino-Annunziata” di Boscoreale (Na). Famiglie
che negli ultimi anni invadono nuovi terreni, colonizzando il vicino
Molise.   

Il confino. Come
nelle altre regioni del Centro e del Nord, la pratica infelice dei soggiorni
obbligati ha dato il la alla colonizzazione mafiosa. Diverse famiglie
siciliane, calabresi, campane e poi pugliesi hanno potuto utilizzare
basi d’appoggio in Abruzzo, anche grazie alla presenza di affiliati,
o addirittura boss, confinati lontano da casa. Basi per i traffici,
ma anche per le operazioni “legali”, gli investimenti economici,
in una parola il riciclaggio. Un esempio: il boss della ‘ndrangheta
Michele Pasqualone ha svernato in Abruzzo, mettendo in piedi nel corso
degli anni una cosca dedita alle estorsioni e all’usura (operazione
Histonium, 2008). 

Il picciotto Gabriellino.
La storia di Fioravante Palestini è come un romanzo criminale. Fioravante
è un ragazzone di due metri per cento chili. Diventa famoso tra i 70
e gli 80: è l’icona della Plasmon, il forzuto che figura nella pubblicità
della casa di biscotti. Soprattutto diventa un graduato del crimine.
Fioravante, per tutti “Gabriellino”, è uno a cui piace fare la
bella vita e menare le mani. A Teramo conosce l’insolito ospite fisso
di un albergo. Gaspare Mutolo da Palermo vive lì, residenza da confinato.
Il boss di Cosa nostra si muove in Ferrari, continua a frequentare la
Sicilia con spostamenti lampo. L’attrazione è fatale. E così Gabriellino,
arruolato nell’esercito della mafia, finisce nei guai, grossi guai.
Tornerà a casa, a Giulianova, solo dopo venti anni di carcere egiziano.
Nell’83 è a bordo di un mercantile greco sul canale di Suez, con
gli occhi fissi sul carico di 230 chili di eroina e 25 di morfina base
destinato alla mafia. Venti anni per traffico internazionale di droga.
Gabriellino non ha mai parlato. Parlano i fatti: l’Abruzzo è da decenni
il crocevia di grandi traffici di stupefacenti, è una delle principali
piazze di spaccio in mano alle mafie di tutti i tipi. 

L’isola dei pentiti.
L’Abruzzo è anche la terra dei collaboratori di giustizia. Lì vengono
spediti, in tantissimi, per vivere sotto falsa identità. Forse un po’
troppi. E spesso nemmeno in gran segreto. C’è Carmelo Mutoli, palermitano,
genero del bosso della Noce Francesco Scaglione, tra i testi dell’accusa
nel processo per la strage di Capaci. Collabora dal ’94, ma nel ’95
non viene ammesso in via definitiva al programma speciale di protezione,
e viene pubblicamente invitato a lasciare la propria casa abruzzese.
Ne arriveranno molti altri. Tanto che nel 2000 a l’Aquila c’è un
corto circuito. In aprile si suicida Giuseppe Arena, di Taurianova.
Pochi giorni dopo Antonio Maletesta, anch’egli collaboratore di stanza
in Abruzzo, è protagonista di una sparatoria. C’è anche Bruno Piccolo,
il pentito dell’affaire Fortugno, che vive a Chieti sotto falso nome,
prima del suicidio alla vigilia del secondo anniversario dell’omicidio,
nel 2007. 

Zona franca. In Abruzzo
ci vanno anche per sfuggire ai guai. Nel ’90, mentre a Reggio Calabria
impazza ancora la guerra di mafia, scatta un blitz che porta in cella
una trentina di ‘ndranghetisti. Cinque affiliati alla cosca Rosmini
– del cartello guidato da Giuseppe Condello, il Supremo, che risulterà
vincente – vengono arrestati a Montesilvano, ospiti da parenti. Gestivano
insieme alcune attività commerciali nella zona. Anche Giovanni Spera,
figlio del boss siciliano Benedetto Spera di Belmonte Mezzagno, si trasferisce
in Abruzzo, nel ’94, per sfuggire ai regolamenti di conto in atto
nella sua terra. E si mette al lavoro, riciclando e investendo. Nel
2008 gli porteranno via i beni accumulati. 

Ai pugliesi piacciono
i monti.
I mafiosi della Sacra corona unita scelgono l’Abruzzo
per il soggiorno obbligato. E per le latitanze. Nel ’96 finiscono
in cella due affiliati alla Scu. I carabinieri li prendono a L’Aquila,
mentre danno la caccia al superlatitante Antonio Bruno, di Torre Santa
Susanna (Brindisi). Il boss della mala pugliese è riuscito a sfuggire
a cento militari impegnati sul campo. Bruno era tra i collaboratori
nel maxiprocesso alla Scu, prima della fuga rocambolesca nel ’93 e
la successiva ritrattazione via missiva. Anche Andrea Russo, nel listino
dei 100 più pericolosi, affiliato ai Piaulli-Ferraro di Cerignola,
viene preso nel luglio del 2007. 

‘O sistema, in trasferta.
Nel febbraio del ’92 Enrico Maisto viene ucciso a Popoli (Pescara).
Originario di Giugliano, era un boss della camorra, affiliato ai Nuvoletta.
Una conclusione tragica. A tanti altri campani, ai quali pare non dispiaccia
l’Abruzzo, è andata un po’ meno male. Attorno al 2006 cadono nella
rete due pericolosi camorristi alla macchia: sono Nicola Del Villano,
braccio destro del boss casalese Michele Zagarioa, e Giuseppe Sirico,
della famiglia di Nola-Marigliano. Anche il boss Lorenzo Cozzolino è
catturato, nel 2008 nella zona del vastese.

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