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Nel nome di mia madre, Renata Fonte

Di Zenab Ataalla* il . Puglia

Venticinque anni fa, il 31 marzo 1984, Renata Fonte, assessora del comune di Nardò, in provincia di Lecce, cadeva assassinata per mano mafiosa. Si era battuta contro la lottizzazione e la speculazione edilizia del Parco naturale di Porto Selvaggio. Attraverso i microfoni della piccola emittente locale, Radio Nardò1, veicolava la sua lotta per la legalità, la democrazia, la giustizia. Quando è caduta sotto i colpi di pistola dei sicari, aveva 33 anni e due figlie bambine piccole, che l’aspettavano a casa.

Tra le prime donne in politica nella provincia di Lecce, nipote di Pantaleo Ingusci, storica figura del Partito repubblicano leccese, perseguitato e arrestato durante gli anni del fascismo, Renata stata un personaggio scomodo fin dai primi incarichi istituzionali, assessore alle Finanze nel 1982 e nel 1983 assessore alla Cultura e alla Pubblica Amministrazione. Presto dimenticata dai grandi media, ma non dalla sua gente e degli amici del Comitato per la Salvaguardia del Parco che Renata aveva fondato. Sono loro, che ad ogni anniversario organizzano un evento commemorativo per tenere viva la testimonianza dell’ impegno civile e politico di questa donna vitale e coraggiosa, e attraverso il suo ricordo l’impegno al dovere della denuncia e della ribellione contro tutte le mafie.

Quest’anno, al Parco di Porto Selvaggio è stata inaugurata una stele in memoria di Renata Fonte, e posta al cimitero la prima pietra del monumento funebre intestato ai valori della legalità, della democrazia e dell’antimafia.
Tra chi l’ha pensato, c’è Viviana Matrangola. Un nome che dice molto. Viviana, infatti, è una delle due figliole di Renata, la più piccola, all’epoca dei fatti aveva 10 anni. La storia, l’esempio di sua madre li porta impressi nell’impegno quotidiano a difesa dei valori che furono territorio della sua battaglia per la legalità, oltre che nel cuore. È a lei che abbiamo chiesto di ricordare per le lettrici di women i momenti più importanti della sua relazione simbolica con la madre, nel solco di quella genealogia tra madre e figlia che, nella vicenda tragica di Renata Fonte e del suo impegno civico, ha significato per le figlie una difficile rielaborazione di memoria contro il vuoto dell’assenza del corpo e delle parole della madre.

Viviana Matrangola. “Mia mamma era nata a Nardò nel 1951. Per un po’ di tempo era vissuta lontano da questo paese, ma una volta rientrata con la sua famiglia si era dedicata subito alla vita civile della città. Ricordo la sua grande dedizione, ispirata agli ideali marxiani dello zio Pantaleo Ingusci, di cui traduceva anche i libri. Dopo gli incarichi di Assessore alle Finanze e alla Cultura ed Istruzione, era diventata segretario del Partito repubblicano di Nardò e, a sorpresa, nel 1982 aveva vinto le elezioni, portando in giunta comunale, dopo tantissimi anni, i repubblicani.  Dico “eletta a sorpresa” perché “nei piani” al posto suo avrebbe dovuto esserci un’altra persona, e solo dopo si capirà il perché. Come membro del Consiglio Comunale, mia mamma lavorava senza sosta per la tutela e per la difesa del territorio di Nardò, in particolare per la salvaguardia di Porto Selvaggio che oggi, grazie al suo sacrificio, è un’oasi incontaminata di bellezza mediterranea, ma che all’epoca era oggetto di obiettivi completamente diversi.  In Consiglio comunale era agli atti una modifica del Piano Regolatore che avrebbe infatti permesso una speculazione edilizia del parco. A questo mia mamma si è opposta, e questo le è costato la vita.

Viene assassinata la sera del 31 marzo 1984, all’uscita di una seduta del Consiglio comunale di Nardò, con 3 colpi di pistola. Le indagini iniziano immediatamente, e in un tempo relativamente breve, nel giro di pochi mesi, vengono assicurati alla giustizia gli esecutori materiali e il presunto mandante: il primo dei non eletti, proprio quella persona attraverso cui gli speculatori di Porto Selvaggio avrebbero avuto la possibilità di fare il loro sporco gioco all’interno del Comune.  25 anni fa, non erano molte le donne in politica da queste parti, mia mamma è stata una delle primissime, era iscritta anche all’Udi, Unione Donne Italiane, e operava attivamente anche nel sociale, a favore dei diritti delle donne. Tutto questosuo malgrado  l’ha fatta diventare molto probabilmente leader di un movimento politico e socio-culturale che aveva compreso che, anche in quel Salento considerato fino ad allora un’isola felice, in realtà stavano attecchendo i sistemi e i metodi mafiosi di cui oggi siamo a conoscenza.

Minacce. Mi chiedi se aveva ricevuto minacce. Si, ma noi, in famiglia, lo abbiamo saputo solo dopo la sua morte quando, nel corso delle indagini, ci è stato detto che aveva confidato ad una sua cara amica le intimidazioni e le pressioni cui era soggetta per desistere dalla difesa di quell’area che oggi, grazie al suo sacrificio, è il Parco Naturale di Porto Selvaggio. Da quest’anno, dal 31 marzo, anniversario del suo assassinio, all’interno del Parco c’è una stele dedicata a lei; un tributo doveroso da parte dell’amministrazione comunale nei confronti di una donna che ha speso la sua vita per la tutela di quel posto.  Per noi, per me e per mia sorella, mia mamma è stata e continua ad essere un modello. La sua morte ha aperto un vuoto enorme, la sua assenza è stata fortissima. Ma altrettanto lo era stata la sua presenza. Avevo 10 anni e mia sorella quasi 15 anni, ma l’imprinting che ci ha lasciato la personalità di nostra madre lo ritroviamo in qualunque cosa facciamo.  Crescendo, abbiamo ereditato l’immagine di una donna “femminile” a 360°, e nello stesso tempo combattiva e forte, che ha vissuto con una grandissima onestà intellettuale e ha svolto il suo lavoro con totale abnegazione.  Mia mamma è un modello non solo per noi, ma per tutte e tutti. In realtà lei, come tutte le altre vittime di mafia, non pensava di diventare un’eroina, perché faceva solo il suo dovere. Questo però fa capire l’ordinarietà di alcune vite che diventano poi vite straordinarie e modelli da seguire.  È in questa luce che, noi figlie, leggiamo la reazione del paese al suo assassinio. Sicuramente nostra madre ha vissuto e ancora vive nel cuore delle persone che l’hanno incontrata, e le hanno voluto bene. Ma c’è stata una volontà politica di dimenticarla. Per anni non si è fatto nulla per onorare il suo ricordo, forse perché ricordare una morte così tragica avrebbe significato automaticamente porsi delle domande. Crescendo, io e mia sorella, con la caparbietà, la determinazione e l’ostinazione che abbiamo ereditate da lei, siamo riuscite a rimettere in piedi il suo ricordo, la sua testimonianza. Io, per esempio ho parlato di lei addirittura alle Nazioni Unite, a New York quando ancora a Nardò si taceva.

La voglia di ricordarla, i diversi riconoscimenti avuti da parte dell’amministrazione comunale, la stessa dedica all’interno del Parco di Porto Selvaggio, continuano a suscitare polemiche ancora oggi. Nonostante tutto, c’è chi ancora cerca di sostenere che Nardò non è una città mafiosa, che la presenza e l’attività dei gruppi antimafiosi, di Libera, di Don Ciotti, non sono necessari. A queste persone, dico che dovrebbero leggersi non solo le sentenze del processo, ma le motivazioni che hanno portato a riconoscere Renata Fonte vittima di mafia.  So bene che per loro, un passo del genere significherebbe ammettere che nei fatti hanno taciuto un sistema scorretto, non hanno fatto niente per opporsi ad opporsi all’illegalità a cui mia madre ha detto chiaramente di no. Ricordare, facendo rumore, significa anche porsi domande e interrogativi rimasti muti per troppo tempo.
Il senso della sua morte sta in quello che ci ha lasciato. Mia madre è stata una donna che ha combattuto per la giustizia, per la legalità, per la democrazia e per la libertà del suo territorio. È stata uccisa per questo, come hanno che persone che come lei hanno perso la vita per sostenere la battaglia di legalità.

Una vita umana persa è un’ingiustizia e deve essere intesa comunque come una sconfitta. Ma il fatto che noi tutti possiamo godere del Parco naturale di Porto Selvaggio ci dà in qualche modo il senso della sua morte, ci restituisce tutta la sua vitalità e la sua appassionata esistenza, ma sicuramente non colma e non colmerà mai il vuoto che lasciato in ognuno di noi.

C’è stato chi ha raccolto il testimone della mamma, ma c’è voluto del tempo perché tutto questo si verificasse. Prima del 1998, non su era fatto niente, e noi eravamo impegnate a metabolizzare ancora il dolore della sua assenza.
L’impegno affinché la sua memoria non cadesse nell’obliò è iniziato nel 1998, e ha messo in moto una macchina incredibile ed inarrestabile. Un gruppo di donne si sono aggregate nell’associazione “Donne Insieme”, nata nel 1998 con l’obiettivo di promuovere la cultura della legalità e della non violenza sul territorio.L’associazione ha creato una rete di collaborazione con la Procura Nazionale Antimafia, la Questura e il Pool Antiviolenza del Tribunale, dando vita alla “Rete Antiviolenza Renata Fonte”, cioè al primo centro antiviolenza, riconosciuto dal Ministero dell’Interno in collaborazione con il Ministero delle Pari Opportunità. Provvisto di numero verde gratuito, il centro si occupa delle donne vittime di violenze domestiche e di stalking, fornendo loro un sostegno a 360 gradi. Nel nome di mia madre si sono quindi costituiti movimenti di pensiero e corsi di formazione politica.

Questa nostra Italia è un Paese che dimentica troppo in fretta. Sono oggi responsabile dei progetti della Memoria sulle Vittime di mafia dell’associazione Libera e so per certo gli sforzi ed il lavoro enorme che è necessario per tenere vivo il ricordo delle vittime di tutte le mafie, per far si le oro storie diventino un simbolo, e siano ricordate.
Ci vuole uno sforzo enorme, giorno dopo giorno, anche quando si tratta solo di ricostruire la banca dati di tutte le persone assassinate dalle organizzazioni criminali mafiose, uccise per aver promosso la legalità e la democrazia di questo Paese senza memoria. Che ci appunta sul petto la medaglia d’oro in ricordo dei nostri famigliari uccisi, e dopo ci confina nel silenzio.

Le storie delle vittime di mafia e delle loro famiglie spesso sono storie di solitudine perché accanto alla fine non si ritrovano nessuno.
Per questo, per ogni storia riportata alla memoria bisogna sapere che dietro c’è un duro lavoro, frutto anche della fatica di metabolizzare il dolore e a trasformarlo in impegno per gli altri.

 

*Women in the city

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