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1. L’isola che non c’è

Di Alessio Magro il . Abruzzo

Un lavoro da
tempo studiato che riteniamo opportuno pubblicare proprio ora che la
ricostruzione nell’aquilano, dopo il forte sisma che ha colpito la zona,
aprirà sicuramente importanti sbocchi per le infiltrazioni mafiose
negli appalti. La criminalità organizzata, da anni ormai attiva sia
nella Marsica che sulle coste abruzzesi,  è sicuramente interessata
a non perdere una fonte sicura di guadagno. Il dossier di Libera Informazione
descrive una infiltrazione silenziosa ma profonda, in un tessuto divenuto
crocevia del riciclaggio e del reinvestimento dei proventi illeciti,
ed è un monito per non sottovalutare la pervasività delle mafie, soprattutto
in questo lacerante frangente storico.

Quella dell’Abruzzo criminale è la
storia di una negazione. È La storia di un’isola felice che isola
felice non è, da tempo. O forse lo è, ma solo per le mafie. Cosa
nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, ma anche le
organizzazioni straniere (quelle albanese e cinese in testa) si
muovono tra i monti della Marsica e sulla costa da diversi anni.
Fanno affari, si infiltrano nell’economia, mettono le mani sugli
appalti, costruiscono basi operative per latitanti e per i traffici
di droga. Capitali da riciclare, investiti in aziende e immobili
(sono ormai 25 i beni confiscati alle mafie nella regione, in ben 15
comuni e in tutte e quattro le province). E ancora la tratta delle
bianche, la prostituzione di strada e quella nei locali della costa,
l’usura e le estorsioni. L’Abruzzo è la regione dei parchi, è
il cuore verde d’Europa, ma è anche terra di ecomafie, che
sversano rifiuti tossici nelle lande inabitate della regione. Una
regione malata di corruzione: dalla Tangentoli degli anni 90 agli
scandali recenti, dai provvedimenti giudiziari che hanno colpito la
giunta regionale nel 1992 all’arresto del governatore dell’Abruzzo
Ottaviano Del Turco.

Infiltrazione e sottovalutazione
Quella dell’Abruzzo criminale è una
storia di sottovalutazioni. Di continue e insistenti dichiarazioni di
estraneità, anche di fronte all’evidenza dei fatti. Le mafie in
Abruzzo non ci sono, e se ci sono vengono dall’esterno. Criminali
meridionali oppure stranieri. Criminali di passaggio. Una visione
intanto riduttiva: le famiglie meridionali emigrate abitano ormai da
decenni nella regione del Gran Sasso, africani e slavi hanno messo
ormai radici, così come le frange criminali al loro seguito. Non
passano affatto, restano. Ed è una visione pseudo-antropologica al
confine con il razzismo culturale: come se mafia e criminalità
fossero insite nel dna di alcuni popoli, di alcune razze o di certi
tipi di italiani. Una visione che impregna le dichiarazioni di
politici, amministratori e troppo spesso operatori della giustizia.
Ogni banda sgominata è una malattia debellata, in una società sana.
Ogni inchiesta è la reazione di un corpo sano e non il sintomo di
una patologia. Eppure l’omertà, a detta di chi opera sul campo, è
regola anche tra gli abruzzesi.

Una visione che è un esempio classico
di rimozione: la commissione parlamentare antimafia visitò nel ’93
l’isola felice – all’indomani della bufera giudiziaria del ’92
(nove arrestati su undici componenti della giunta regionale) e di una
serie impressionante di inchieste su politica-mafia-massoneria –
lasciando ai posteri un dossier al vetriolo. È la relazione
Smuraglia, sintesi del viaggio nelle regioni a “non tradizionale
insediamento mafioso”. Conclusioni: in Abruzzo, così come nel
resto dell’Italia centrale e settentrionale, le cosche sono
presenti, radicate, potenti e attivissime. Molto più sul versante
economico che su quello del controllo del territorio. Ma non per
questo meno pericolose. Già da allora, più di 15 anni fa, era
chiaro che la partita contro le mafie si sarebbe combattuta sul
fronte del riciclaggio. È tutto scritto: le isole felici non
esistono. Lettera morta. Perché ancora oggi il discorso attorno alle
presenze mafiose trova resistenze, negazioni, riduzionismi, spesso
nascosti dietro la sacrosanta esigenza di non creare allarmismo e non
cavalcare l’onda del sensazionalismo. Criminali d’altrove, si
dice troppo spesso. Eppure la malavita abruzzese è ormai
organicamente inserita in contesti mafiosi tradizionali (vedi
estorsioni, gioco d’azzardo, prostituzione e droga tra Pescara,
Teramo e Chieti). E soprattutto ci sono un certo ceto
politico-amministrativo e una certa imprenditoria che flirta, a dir
poco, con le mafie ad altissimi livelli. Non hanno la coppola e la
lupara, non sparano, ma riciclano i milioni del narcotraffico,
corrompono, pilotano gli appalti, truffano, devastano il territorio,
inquinano l’economia, investono in immobili e capannoni, avviano
società finanziarie. Giacca, cravatta e colletto sporco.

Ma non ci sono solo le mafie d’alto
bordo. Le inchieste Histonium nel vastese, i dati sull’usura e sul
racket ci parlano di una regione avviata da tempo verso una
dimensione mafiosa classica, col controllo del territorio e il
consenso della paura. L’Abruzzo non è di certo la Calabria o la
Campania, non è la Sicilia, non è la Puglia (non ancora), ma non è
nemmeno la Svizzera. Il 10% dei commercianti paga il pizzo, una
percentuale da allarme arancione. E Pescara è la capitale
dell’usura, prima città in Italia secondo tutti gli indicatori di
rischio. Avviso ai naviganti: l’usura non è più, da decenni, roba
da cravattari. Dietro lo strozzino ci sono le mafie. Sempre.

Un fenomeno di importazione
È innegabile che il fenomeno mafie in
Abruzzo sia comunque un fenomeno d’importazione. Ad aprire le
porte, però, è stata proprio la Giustizia, con un’infelice
gestione dei soggiorni obbligati: decine di boss e affiliati
meridionali inviati al confino sui monti e sulla costa. Una pratica
dalle conseguenze nefaste in tutta l’Italia centro-settentrionale.
Ecco che l’Abruzzo ha visto l’espandersi di cellule criminali,
schegge dei clan pronte a trapiantare i traffici illeciti coltivati
al Sud. Reti di fiancheggiatori che hanno favorito nel tempo la
pratica del riciclaggio, degli investimenti legali di capitali
mafiosi, ma anche l’organizzazione di basi per latitanti e
scissionisti in fuga dalle guerre di mafia. Gli affari col tempo sono
evoluti, spesso le diverse mafie hanno trovato l’accordo basato sul
guadagno, nella loro isola abruzzese, felice e pacificata.

In un certo senso però le mafie ci
sono sempre state: l’Abruzzo ha un fenomeno peculiare, la presenza
atavica di famiglie rom (“nomadi stanziali” è la definizione
ossimoro che si legge nelle relazioni ufficiali) dedite ad attività
criminali. Hanno in mano la partita dell’usura e lo spaccio al
dettaglio della droga. Famiglie come quella dei Di Rocco che siedono
ormai al tavolo nazionale delle cosche, trattando a testa alta coi
calabresi, i camorristi e i siciliani, ma anche con gli slavi.

La rotta balcanica, i porti
dell’Adriatico, i clan albanesi in contatto con la cupola slava.
Sono gli ingredienti che fanno dell’Abruzzo un crocevia dei grandi
traffici di cocaina, ma anche di eroina. Il consumo di stupefacenti è
elevatissimo (l’Abruzzo è tra le prime regioni per sequestri e
denunce legati all’eroina), una piazza di spaccio tra le
principali. Nell’ultimo decennio, diverse grandi inchieste hanno
coinvolto i monti del Gran Sasso e la costa, operazioni che rimandano
a traffici intercontinentali (con gli Usa, con la Colombia, con la
Turchia e la Bulgaria, oltre che con i Balcani). E alle porte di
Pescara è stata scoperta una delle più grandi raffinerie di polvere
bianca presenti in Europa.

Mafie straniere, ecomafie,
corruzione

Droga e prostituzione sono le attività
principali delle mafie straniere in Abruzzo. Sono gli albanesi a
gestire i grandi traffici (adesso con un preoccupante asse
slavi-campani). E a promuovere la tratta e la prostituzione. In
strada, ma anche nei locali notturni della costa. Una pratica
redditizia, sfruttata in proprio anche dai rumeni e dai cinesi. Il
pericolo giallo è la vera emergenza: nella regione è presente una
delle comunità asiatiche più strutturate. Una presenza che si
accompagna all’emergere di clan mafiosi agguerriti e misteriosi
(vedi operazione Piramide a Pescara). E c’è il pericolo russo,
quei grandi faccendieri che fanno affari come al monopoli.

L’isola verde è preda delle
ecomafie. Tonnellate di rifiuti tossici scaricati abusivamente,
discariche illegali, cave riempite di ogni cosa, un po’ ovunque.
Caso eclatante è quello di Bussi sul Tirino, una delle discariche
più grandi d’Europa. E poi c’è la mala amministrazione, i fiumi
inquinati e i mari contaminati, il turismo che arranca, con sullo
sfondo tanti, troppi casi di corruzione, di appalti sospetti.

Corruzione dilagante, endemica. Legami
tra politica, amministrazione, mafie e massoneria. Intrecci perversi,
trame occulte e intricate che spesso hanno l’Abruzzo come scenario.
Dall’inchiestona sull’autoparco milanese di cosa nostra a
Tangentopoli negli anni 90, dalle tangentine locali fino alle
presunte tangenti che avrebbero intascato Del Turco e il sindaco di
Pescara Luciano D’Alfonso.

Ma è appunto sul fronte del
riciclaggio e degli appalti che si gioca la partita. Grandi capitali
di provenienza sospetta, investimenti abnormi, commesse e gare con
diverse ombre. Una storia ancora da raccontare quella della
lavanderia Abruzzo. Una storia che di recente ha un primo punto
fermo: il tesoro di Ciancimino, ex sindaco e boss di Palermo, sarebbe
stato custodito e fatto fruttare proprio nella Marsica, attraverso
società e prestanome. Una storia venuta a galla grazie all’impegno
di Libera Marsica e alle inchieste puntuali di organi di informazione
dal basso come Site.it e Primadanoi.it. Una storia ancora da
raccontare, ma soprattutto da indagare.

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