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«Mai visto, signor giudice»

Di Rino Giacalone il . Sicilia

«Signor giudice, mai». La frase è ripetuta, in un’aula di giustizia, una, due, tre volte, con la lettera “a” di quel “mai” allungata all’inverosimile, così ad ogni domanda che il magistrato pone per sapere dei suoi rapporti con la cosca mafiosa del Belice, quella capeggiata dal super latitante Matteo Messina Denaro. D’altra parte del tavolo, a concedere quell’assolutezza di non colpevolezza,  il «re» della grande distribuzione della Sicilia Occidentale, l’imprenditore di Castelvetrano Giuseppe Grigoli.

È stato arrestato, con l’accusa di associazione mafiosa, a fine dicembre 2007, ad opera dei poliziotti della Squadra Mobile di Trapani che anche sensa risorse ci stanno mettendo di saccoccia per non dare tregua ai mafiosi e ai loro complici in provincia di Trapani; successivamente Girgoli ha subito, stavolta ad oepra degli agenti della Dia, direzione investigativa antimafia di Trapani, il sequestro dei suoi beni, patrimoni personali e societari per oltre 700 milioni di euro, comprese le quote del maxi centro commerciale «Belicittà» sorto in un baleno a ridosso di uno svincolo dell’autostrada A 29, nell’area commerciale di Castelvetrano.

Oggi Grigoli è imputato, con Matteo Messina Denaro, che resta latitante, davanti al Tribunale di Marsala, ma è anche imputato dinanzi al Tribunale delle Misure di Prevenzione a Trapani. Davanti a tutti e due i Tribunali ha voluto fare dichiarazioni spontanee, raccontando la sua versione dei fatti e cioè quella di essere «una vittima» della mafia.

Chi è Giuseppe Grigoli. E’  il «re» della grande distribuzione della Sicilia occidentale. Rappresenta, secondo le indagini della Dda di Palermo, espressione tangibile della nuova mafia, soprattutto per il know how dell’impresa messo a completa disposizione, «secondo un modello che è comune anche ad altri imprenditori», un intreccio politico mafioso affaristico che fa della mafia un modello a parte, grazie al rapporto tra imprese e mafia. Giuseppe Grigoli nel 1974 gestiva a castelvetrano un piccolo negozio di alimentari.

Dichiarava un reddito annuo di appena tre milioni e 372 mila lire, circa 1.740 euro attuali. Qualcuno, quel minimarket, glielo bruciò in un attentato rimasto senza colpevoli. Per chiunque sarebbe stata la rovina. Invece, per Giuseppe Grigoli, l’avvertimento significò la svolta. Nuove amicizie e protezioni di altissimo livello e mafiose. Fatto sta che 35 anni dopo, allo stesso Grigoli, oggi sessantenne e indiscusso magnate della grande distribuzione commerciale in Sicilia occidentale nel settore agroalimentare con il marchio Despar, è stato sequestrato – in tre tranche di 200, 300 e 200 milioni di euro – un patrimonio di 700 milioni di euro.

Le indagini raccontano della sua disponibilità riesumata dai «pizzini» trovati a Bernardo Provenzano, nel covo di Montagna dei Cavalli di Corleone che era non solo un rifugio ma una sorta di sede di uno degli archivi delle vicende di Cosa Nostra. «Alessio», alias di Matteo Messina Denaro, firmava i pizzini e garantiva a Provenzano che Grigoli era uno a disposizione. Ma Grigoli ha voluto raccontare un’altra storia. Dalla metà degli anni ’90, ha detto, che la regola che gli è stata imposta era quella di pagare due volte l’anno, secondo cifre calcolate come se si dovessero pagare aliquote fiscali. «Mi fu chiesto l’1 per cento calcolato sul fatturato, in sostanza 60 mila, 80 mila euro».  E quando il pm ha fatto notare che nel calcolo c’era qualcosa che non andava, tra il suo fatturato, quell’1 per cento e il “pizzo” pagato, lui allora si è subito corretto, «no, ho sbagliato dottore, era lo 0,01 per cento», quasi fosse una «insignificante» aliquota di quelle appena sufficienti per ripianare qualche buco di bilancio. Ma il bilancio era quello della mafia.

A chi finivano quei soldi? A questa domanda Grigoli non ha voluto rispondere, «veniva uno a riscuotere, a prendersi i soldi», ma su chi fosse ha negato la risposta  girando il viso dall’altra parte. Era Matteo Messina Denaro in persona? «Mai signor giudice, mai visto», ha risposto Grigoli, ancora ripetendo quel “mai” allungato a dismisura, offrendo anche una smorfia sul suo volto, come se volesse sforzarsi per farsi credere.

Un sospetto su chi potesse essere c’è, gli investigatori non lo nascondono, potrebbe essere Filippo Guttadauro, cognato del boss latitante, Filippo ha sposato la sorella di Matteo, Rosalia Messina Denaro, ma Filippo Guttadauro è anche «compare» di Grigoli. Ma anche dinanzi al nome Guttadauro, uno dei capi dell’altra potente famiglia mafiosa di Brancaccio, l’imprenditore nega. Quel nome di chi veniva a prendere i suoi soldi continua a non volerlo dire.

I rapporti con la mafia, secondo il suo racconto, non erano però solo regolati col denaro, «se c’erano richieste di assunzioni per i supermercati andavano esaudite»; segnalazioni di assunzioni, una quindicina in tutto, sono arrivate anche da parte di Messina Denaro, uno dei raccomandati per un paio di posti di lavoro per suoi familiari è stato anche Vito Mazzara, il killer, all’ergastolo, dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto, quell’agente ucciso l’antivigilia di Natale del 1995 davanti gli occhi della moglie e della figlia, quella morte fu, così raccontarono i pentiti, il “regalo di Natale” ai mafiosi detenuti al 41 bis.

Gli atti dell’indagine su Giuseppe Grigoli dicono che  Grigoli più che vittima sia diventato un socio di Messina Denaro. Tant’è che due mafiosi agrigentini, trovandosi a parlare di lui e di un tentativo di estorsione ricevono l’invito a fermarsi, «lui e Messina Denaro – furono avvertiti – sono la stessa cosa».

Ma c’è anche altro. Una indagine finita archiviata a Catanzaro proprio contro Grigoli. C’è un filo che unisce la Sicilia alla Calabria, la mafia alla ‘ndragheta. E passa per i centri commerciali. La commissione nazionale antimafia della scorsa legislatura, presieduta da Francesco Forgione, occupandosi di ‘ndragheta si è ritrovata ad occuparsi anche di Giuseppe Grigoli. Analizzando lo spaccato di alcune società, in terra di Calabria, sono anche emersi i nomi di Giuseppe Grigoli, al pari di quello di Salvatore Scuto, imprenditore catanese, anche lui arrestato, e gestore del marchio Despar in Sicilia Orientale. La commissione nazionale antimafia ha accertato che su tutta questa vicenda, le cui indagini erano state sollecitate su impulso della Dna (direzione nazionale antimafia) e successivamente archiviate dall’ex procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi. Adesso si sono aperti nuovi filoni di inchiesta.

Il retroscena. Quella di Trapani continua a mostrarsi come una mafia «regolatrice» di tanti mercati apparentemente leciti. Esistono energie imprenditoriali libere, ma resta l’idea che il blocco mafioso-imprenditoriale-politico sia l’unica maniera di fare impresa. Una battaglia dura? «È una battaglia più difficile – dice il presidente di Confindustria Sicilia Lo Bello – C’è l’imprenditore sano e quello colluso. Non c’è l’estorsore. L’imprenditore che paga il pizzo può convincersi a fare una scelta coraggiosa. Mentre l’imprenditore colluso ha già alle spalle una responsabilità penale maggiore, che è la stessa del mafioso. Esiste quindi questo legame forte e perciò lo schema da rompere  diventa molto più problematico. Ma non impossibile».

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