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Il latitante Messina Denaro in fuga su fuoristrada e ambulanze

Di Rino Giacalone il . Dai territori, Sicilia

La cattura, l’ultimo giorno di gennaio 2003, dei super latitanti della mafia trapanese, Andrea Manciaracina e Natale Bonafede, scovati dalla Squadra Mobile in una villetta di Marsala, preoccupò a tal punto il capo mafia anche lui ricercato Matteo Messina Denaro da fargli organizzare una precipitosa fuga da Castelvetrano, dove pare si trovasse, sino a Bagheria, nel palermitano, che già altre volte sarebbe stato suo rifugio sicuro.

La circostanza è emersa durante la testimonianza dinanzi al Tribunale di Palermo del colonnello dei Carabinieri Nicolò Gebbia, ex comandante del reparto operativo di Palermo dell’Arma tra il 2002 ed il 2003, ed ex comandante della Compagnia di Marsala nella prima metà degli anni ’80. Gebbia è stato citato in aula dal pm della Dda Nino Di Matteo, ha fatto da testimone al processo a carico di Gaetano Michele Arcangelo Lipari, un infermiere di Bagheria accusato di associazione mafiosa per aver curato il «padrino» di Corleone Bernardo Provenzano durante la latitanza di questi. Gebbia ha svelato che nel febbraio 2003 il fatto che Matteo Messina Denaro poteva trovarsi a Bagheria fu esternato da un «confidente», che aveva messo in relazione la presenza del capo mafia del Belice nel palermitano perchè la cattura a Marsala di Bonafede e Manciaracina lo aveva messo in allarme, tanto il cerchio attorno a lui oramai si era stretto. La fonte di Gebbia sarebbe stata una sua antica conoscenza marsalese.

Una fuga quella di Messina Denaro a bordo di un fuoristrada. «Se ne fece carico il capo della famiglia mafiosa di Altavilla Milicia, Biagio D’Ugo. Guidò lui quel fuoristrada, e c’era anche suo figlio Salvatore».
Ma la presenza a Bagheria di Matteo Messina Denaro, che emerge peraltro nell’ambito di altre indagini, come quella che vide coinvolta Maria Mesi, una donna che gli garantì un nascondiglio, o ancora in quella relativa all’imprenditore palermitano Michele Aiello, è anche legata ad altri accadimenti. Francesco Messina Denaro, il «patriarca» della mafia belicina, morto dieci anni addietro durante la sua latitanza, avrebbe trovato assistenza sanitaria proprio nella zona di Bagheria. «All’epoca della latitanza del padre di Matteo Messina Denaro, proprio nel bagherese– ha detto il col. Gebbia – c’era stata una coppia di infermieri che lo aveva curato e non è mai stata identificata». È rimasto il sospetto che si potesse trattare di Lipari e della moglie, anche lei infermiera.

Le indagini attorno al super latitante Matteo Messina Denaro nel tempo hanno permesso agli investigatori che gli danno la «caccia» di scoprire una serie di espedienti per sfuggire alla cattura. Anche spostamenti all’interno di un’ambulanza, e non in una sola occasione ma anche più volte, così per potersi muovere tra i territori della Sicilia occidentale. Il giovane boss avrebbe viaggiato assieme ai degenti che dal trapanese erano destinati a raggiungere per le cure oncologiche la clinica di Bagheria dell’imprenditore Michele Aiello. Altri automezzi che di solito il boss utilizzò per muoversi sono stati quelli della Sicula Pesca di Bagheria: camion frigoriferi, “controllati” dalla «famiglia» Guattadauro, invece del pesce dentro c’era nascosto il capo mafia latitante, ricercato dal 1993.

Oggi la sua «latitanza» è segnata da una serie di sventure per lui e fortune per chi lotta Cosa Nostra. Ci sono stati una serie di colpi inferti dalle forze dell’ordine che gli hanno dispiacere. Un paio di «casseforti» gli sono state tolte, portate via dai sequestri dei patrimoni di Giuseppe Grigoli, «re» della grande distribuzione, e dell’imprenditore Rosario Cascio, colui il quale controllava i latifondi di Zangara, terre di contatto tra baroni e mafiosi, e le cementerie in mezza Sicilia. Ma c’è di più, a rendere a Matteo Messina Denaro non facile la latitanza è il fatto di avere avuto infilato in galera il suo più fidato «complice» (nonchè cognato per averne sposato la sorella), quel tale Filippo Guttadauro dell’omonima famiglia di palermitana, che per i prossimi 14 anni resterà in cella.

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