Cologno Monzese non è una “isola” felice
Ci sono voluti
più di due anni di indagini da parte dei Carabinieri delle compagnie
di Sesto San Giovanni e di Monza per arrivare all’imponente blitz
che, scattato all’alba di lunedì 16 marzo, ha portato all’arresto
di alcuni esponenti di importanti famiglie calabresi di ‘ndrangheta,
da tempo operative in provincia di Milano e aventi come base Cologno
Monzese, proprio alle porte del capoluogo.
Pesantissime
le accuse contenute nelle ventidue ordinanze di custodia cautelare,
emesse dal GIP Caterina Interlandi su richiesta del sostituto procuratore
Mario Venditti della Direzione Distrettuale Antimafia e poi eseguite
dai militari dell’Arma: associazione per delinquere di stampo mafioso,
detenzione e porto illegale di armi, tentato omicidio ed estorsione.
Le ordinanze sono state eseguite in alcuni centri dell’hinterland
milanese, Cologno Monzese appunto, Carugate, Brugherio, Pioltello, Concorezzo
e Cesano, ma anche in alcuni paesi della Puglia e della Calabria. A
finire in manette anche un sottoufficiale della Guardia di Finanza di
Monza, con l’accusa di favoreggiamento nei confronti degli esponenti
della cosca calabrese, in cambio di denaro e partecipazioni nella proprietà
di immobili ed esercizi commerciali.
La raffica
di arresti è solo l’epilogo dell’operazione “Isola”
che ha colpito alcune famiglie emigrate in anni lontani al nord e provenienti
da Isola di Capo Rizzuto, centro del crotonese. Il centro degli interessi
mafiosi gravitava da tempo intorno a Cologno Monzese, in provincia di
Milano. I soggetti raggiunti dalle ordinanze del GIP di Milano sono
criminali organici alle famiglie Arena e Nicoscia, due famiglie spesso
contrapposte militarmente nel loro territorio di origine, che in Lombardia
hanno saputo superare contrasti e faide, per trovare prassi stabili
di collaborazione nel riciclaggio di denaro sporco e nello sfruttamento
della manodopera clandestina, soprattutto nel settore dell’edilizia
e del movimento terra. Una vera e propria cellula operativa che non
mancava di essere utilizzata anche da molti latitanti che preferivano
allontanarsi per qualche periodo dai luoghi dove erano maggiormente
ricercati.
Il procuratore
della Repubblica di Milano Manlio Minale sottolinea come l’indagine
abbia colpito la “terza generazione” della ‘ndrangheta
in Lombardia. Nella ricostruzione offerta dal procuratore, la prima
generazione si è occupata di traffico di droga ed estorsioni, la seconda
ha esercitato il ruolo di socio occulto in alcune aziende, investendo
i proventi dei business illeciti e riscuotendone gli utili. Grazie ai
capitali accantonati dai loro predecessori, ora sarebbe il tempo di
una nuova generazione – la terza appunto – che dotata di una presenza
radicata nel tessuto sociale ed economico, avrebbe superato la fase
di intermediazione parassitaria, propria della mafia, per agire sul
mercato con gli strumenti e metodi delle cosche, facendosi forte del
costante collegamento con le famiglie d’origine. Nel nome degli affari
e del potere e del profitto che ne derivano, perciò anche le più antiche
faide e le storiche contrapposizioni vengono accantonate.
Minale nella
sua analisi si spinge in avanti tanto da azzardare un auspicio, vale
a dire il passaggio probabile ad una quarta generazione di ‘ndrangheta,
ormai completamente libera da ogni vincolo con i reati del passato e
pronta a giocarsi sul mercato, nel più completo rispetto delle leggi.
Un auspicio
forse fin troppo azzardato ma che spiegherebbe lo spostamento del baricentro
degli affari e della cabina di regia della ‘ndrangheta dalle terre
di origine a regioni come la Lombardia, dove sono in arrivo una grande
quantità di denaro fresco, in vista del prossimo Expo 2015.
A tirare le
file di questa inedita alleanza tra i Nicoscia e gli Arena di Capo Rizzuto
sarebbe stato l’imprenditore Marcello Paparo, originario di Crotone
e in contatto da sempre con le storiche famiglie Barbaro e Papalia,
da decenni presenti in Lombardia, soprattutto nella zona sud ovest del
milanese. A lui e alla figlia ventenne fanno capo alcune società impegnate
nella logistica, nell’edilizia e soprattutto nel movimento terra,
capaci di non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine per
molto tempo e finanche in grado di infiltrarsi nei lavori per la realizzazione
della rete dell’Alta velocità, in particolare nel cantiere della
tratta che collega Pioltello, Melzo e Pozzuolo Martesana, centri dell’hinterland
est di Milano o in quello per la costruzione della quarta corsia dell’A4
tra Milano e Bergamo.
Un significativo
passaggio estratto dall’ordinanza di custodia cautelare mette in evidenza
come quello smascherato fosse in realtà “un sistema centralizzato
per la spartizione degli appalti per il lavoro di movimento terra in
cantieri pubblici tra cosche calabresi”.
Ingente il
valore dei patrimoni scoperti dall’Arma in possesso della cosca calabrese,
visto che sono stati sequestrati beni per un ammontare per oltre dieci
milioni di euro: oltre al Consorzio Ytaka, cui fanno capo le sei società
intestate a Paparo e alla figlia (Work in porgress, Immobiliare Caterina,
La logistica, Quality Log, P&P e Innovazione), anche capannoni,
abitazioni, il centro medico San Maurizio, aperto proprio a Cologno
Monzese – a conferma dell’interesse delle cosche per la sanità,
non solo nelle regioni del sud – e una somma di oltre centomila euro
in contanti, oltre a numerose armi, compreso un lanciarazzi normalmente
in dotazione alle truppe della Nato e reperito in casa di Giancarlo
Paparo, fratello dell’imprenditore e finito anche lui agli arresti.
Insomma, anche
da questa brillante operazione, ne esce rafforzata l’idea che alle
cosche calabresi interessi sempre di più occupare fette di mercato
legale, evitando il più possibile il clamore mediatico collegato ai
traffici tradizionali di mafia. Il ricorso alla minaccia e alla violenza
(l’ordinanza di custodia cautelare ricostruisce alcuni di questi episodi)
è solo esercitabile come ultima ratio; nella gran parte dei casi basta
la gran quantità di denaro a disposizione delle ‘ndrine per vincere
ogni tipo di resistenza.
Risuonano particolarmente
appropriate pertanto le parole utilizzate dal Consigliere Roberto Pennisi
che, in riferimento alla Lombardia e a Milano, si esprime così nell’ultima
relazione della Direzione Nazionale Antimafia, datata dicembre 2008:
“E’ chiaro che l’attivismo delle cosche mafiose nel territorio
lombardo non è fine a se stesso, ma sfrutta la particolare posizione
dello stesso, nonché la sua connotazione economica e la sua vocazione
finanziaria perché si instaurino quei contatti col mondo economico-finanziario
che servano al riciclaggio dei proventi delle attività
criminose, anche investendo stati esteri”.
Anche se non
è proprio il momento di scherzare, visto quello che emerge dalle operazioni
delle forze dell’ordine, sulla scorta del vecchio adagio, opportunamente
rivisitato per l’occasione, verrebbe quasi da dire “Expo avvisato,
mezzo salvato…”.
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