L’holding mafiosa dell’imprenditore Rosario Cascio
Un secondo “colpo” è stato inferto alla mafia imprenditoriale che sta attorno al super boss latitante Matteo Messina Denaro. Un’altra “cassaforte” gli è stata sottratta. E’ il risultato, l’ennesimo, della strategia che stanno seguendo in Sicilia gli investigatori che gli danno la “caccia”. Gli stanno facendo “terra bruciata” attorno, non solo colpendo i diretti complici della sua latitanza e del suo comando dentro Cosa Nostra, ma puntando anche ai patrimoni. E’ un sequestro da 400 milioni di euro che alza il livello dell’azione antimafia quello che la Dia di Trapani ha messo a segno contro l’imprenditore belicino Rosario Cascio, 75 anni, originario di Santa Margherita Belice ma cresciuto nella zona di Partanna, in carcere dall’anno scorso perché coinvolto nell’operazione antimafia della Dda di Palermo “Scacco Matto”.
Imprese, società, beni immobili, terreni, conti correnti, automezzi, sono stati sottratti al suo controllo. Così come pochi mesi addietro è accaduto per un altro imprenditore del Belice, il “re” della grande distribuzione Giuseppe Grigoli, che agiva sfruttando un portafoglio da 700 milioni di euro. Anche Grigoli secondo gli investigatori aveva messo ogni cosa a disposizione del latitante Matteo Messina Denaro. Tant’è che tutti e due sono imputati nello stesso processo che si è aperto nelle scorse settimane davanti al Tribunale di Marsala.
Adesso è toccato a Rosario Cascio finire oggetto di attenzione nella ricerca dei “tesori” della mafia. E lo hanno trovato con le mani quasi poste su un maxi appalto da 45 milioni di euro, relativo a lavori di urbanizzazione tra Menfi e Porto Palo. Non è un personaggio sconosciuto alle cronache giudiziarie. Il suo nome lo si incrocia già nelle indagini sul delitto commesso a Ficuzza negli anni ’80 del colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo. Poi via via entra ed esce dalle indagini antimafia che riguardano Cosa Nostra insediata nelle province di Trapani e Agrigento. Ha alti e bassi con l’organizzazione mafiosa, ad un certo punto Totò Riina lo voleva morto, a Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Jato, il “capo dei capi” di Cosa Nostra aveva chiesto di farlo fuori anche dopo 10 anni, poi “graziato” dall’intervento dei Messina Denaro. Di lui parlò il pentito Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina: Cascio di Siino sarebbe stato il referente nelle zone belicine. La condanna scaturita da queste rivelazioni, sei anni, divenuta definitiva all’inizio del 2000, non gli ha impedito di diventare un potente. E’ cresciuto tanto da diventare uno dei punti di forza della mafia che fa impresa secondo la linea di condotta seguita dal super latitante Matteo Messina Denaro. Nel settembre del 2008 è stato arrestato, raggiunto in carcere da un ordine di carcerazione mentre stava per finire di scontare la precedente condanna. Nel contesto dell’indagine “Scacco Matto” condotta a suo tempo dai Carabinieri è stato arrestato assieme a suo fratello Vitino. In particolare incastrato dalle intercettazioni ambientali all’interno dell’officina meccanica di Antonino Gulotta a Montevago, provincia di Agrigento. Lì venne captata dagli investigatori una conversazione che fu ritenuta di rilevante interesse per avere fatto emergere il ruolo apicale che Gino Guzzo (presunto capo mafia di Menfi e capo del mandamento di Montevago) ha ricoperto in seno al sodalizio mafioso del Belice ma soprattutto, ha manifestato la caratura delinquenziale degli imprenditori Rosario Cascio e del fratello Vitino, che in forza dei forti legami con Filippo Guttadauro, incontrastato “uomo d’onore” organicamente inserito nel mandamento di Castelvetrano, hanno cercato di convincere Guzzo, Vitino avrebbe portato fuori dal carcere i voleri del fratello Rosario, a vessare quei produttori di calcestruzzo che con prezzi estremamente concorrenziali tentavano di inserirsi nelle forniture di calcestruzzo. E invece quel mercato doveva essere dei Cascio e di nessun altro. La tipica forza intimidatrice mafiosa che si riscontra in tante delle indagini antimafia condotte nel versante della Sicilia Occidentale. L’indagine ha anche rassegnato altro, e cioè il filo di unione tra Cascio e i Messina Denaro di Castelvetrano: quel Filippo Guttadauro non è un boss qualsiasi, è uomo dei Guttadauro di Palermo, i “padroni”, così ritenevano di essere, del rione di Brancaccio, Filippo è fratello di Giuseppe il medico coinvolto nelle inchieste sui colletti bianchi e sulle connessioni con la politica, è cognato di Matteo Messina Denaro per averne sposato una sua sorella. Filippo Guttadauro è indicato come referente di mille affari nei pizzini trovati a Provenzano, in carcere si trova per mafia e estorsioni, condannato in secondo grado a 14 anni per il racket imposto ad una serie di imprenditori del ramo commerciale che avevano insediato le loro attività nell’area di Castelvetrano. Imprenditori che anche davanti l’evidenza hanno negato e anche loro sono stati condannati. Ma le parentele importanti di Rosario Cascio sono anche altre, ci sono quelle altrettanto “pesanti” con gli Accardo di Partanna, la cosca della quale a parlarne quasi per prima fu Rita Atria e con lei la cognata Piera Aiello. Gli Accardo ancora comandano, passaggi generazionali che non hanno interrotto il potere mafioso in questa parte di Belice dove secondo il classico sistema “gattopardiano” cambia tutto per non cambiare niente.
La Dia di Trapani impegnando diversi mesi per le indagini ha setacciato società e proprietà di Rosario Cascio e ha presentato i risultati alla Dda di Palermo. Il gip del Tribunale del capoluogo dell’isola, Antonella Consiglio, ha recepito i risultati investigativi, rassegnati nella richiesta dal pm della Dda Rita Fulantelli e ha firmato l’ordinanza del sequestro, 400 milioni di euro il valore complessivo che non sono più “cosa loro ma sono adesso cosa nostra” come spesso dice don Luigi Ciotti, presidente di Libera quando parla delle proprietà dei mafiosi che tolte alla gente con violenza e sangue tornano alla società civile, alla cosa nostra che non ha a che fare con la cupola e con le cosche ma ha a che fare con la gente che vuole restare libera.
“Re” di appalti e sub appalti Rosario Cascio, monopolio del cemento esercitato attraverso un paio di imprese ora sequestrate, come impianti di produzione di calcestruzzi tra Montevago e Castelvetrano, società di lavorazione di inerti, aziende per i prodotti bituminosi, società commerciali per la gestione di trasporti, concessionarie di auto, oltre che le imprese edilizie a lui intestate. Proprietà immense quelle di Cascio, appartamenti e terreni a Montevago, la Inerti di Menfi.
Lui quello che era il sistema Siino nel controllo degli appalti e delle imprese presto lo fece diventare il suo, ma per il proprio tornaconto e per costituire un punto di riferimento per la cosca belicina. Cemento e forniture per entrare nei cantieri, e nonostante i suoi fossero prezzi al di sopra della media del mercato non aveva problemi a stipulare commesse, chiaramente a convincere le imprese era la sua caratura, secondo chi indaga la sua nemmeno nascosta condotta tipicamente mafiosa. Dal carcere aveva a quanto pare messo gli occhi su un grosso affare, lavori nella zona di Menfi nell’ordine di 45 milioni di euro per realizzare urbanizzazioni e reti idriche. Una delle ultime volte che è stato “intercettato” ad occuparsi di appalti è stato per i lavori del porto di Favignana, lavori pubblici per svariati milioni eseguiti a ridosso delle trasformazioni portuali servite, soprattutto a Trapani, alle gare della Coppa America del 2005. Opere pubbliche eseguite sotto il controllo della prefettura, e a portare il cemento per ampliare la banchina portuale di Favignana erano i mezzi dell’Atlas, impresa di Cascio che nel frattempo era in carcere e continuava a controllare i propri interessi.
Il sequestro ha riguardato 14 ditte
individuali che a loro volta sono risultate proprietarie di 200 appezzamenti di terreno tra Trapani e Agrigento, 90 fabbricati, 9 stabilimenti industriali, silos nel porto di Mazara, 120 automezzi tra automobili e mezzi pesanti e meccanici, 50 fabbricati, ville, appartamenti, magazzini. Alcune delle proprietà sequestrate sono risultate intestate alla moglie dell’imprenditore. Un castello di proprietà, una holding anche questa del malaffare mafioso che aveva il suo centro anche nella gestione di grandi masserie agricole. Lui ne aveva acquistata una nel 1988 a Zangara, la contrada di Castelvetrano dove era insediata una volta la cupola del vero potere, crocevia tra gli uomini di Cosa Nostra, i banchieri e i proprietari terrieri di mezza Sicilia. Ed è da qui che passa una delle matasse ancora non del tutto dipanata degli intrecci tra la nuova mafia, la politica e le grandi imprese. I nomi dei boss che qui si incrociano sono gli stessi di quelli che si scorrono nelle indagini su delitti e stragi e sulla cosidetta mafia sommersa che è diventata impresa. La mafia che non esiste, come qualcuno si intestardisce a dire, è invece per buona parte ancora tutta lì, tra quelle terre.
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