Radiografia di due delitti di mafia, celati dal cono d’ombra
È il caso di delineare
anzitutto lo sfondo. Cosa rappresentava l’est siciliano negli ultimi
anni sessanta e all’imbocco del decennio successivo?
Negli anni sessanta Catania
veniva chiamata la Milano del sud. Siracusa e Ragusa venivano reputate
le province più amene dell’isola. L’intera fascia ionica, da Messina
agli Iblei, veniva considerata, per tradizione, priva di fenomeni mafiosi.
In realtà, relativamente a quel decennio, la situazione era ben complessa.
Dopo la chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1960, la mafia siciliana
aveva sottratto ai marsigliesi il predominio internazionale del contrabbando
dei tabacchi lavorati. Malgrado i deficit di radicamento, aveva quindi
dovuto rendere l’est della Sicilia un territorio pienamente operativo,
per due ragioni: la maggiore vicinanza dalle nuove sedi di deposito,
localizzate di massima lungo le coste iugoslave, albanesi e greche;
la buona reputazione di cui godeva l’area, che rendeva le coste maggiormente
permeabili, ai fini degli sbarchi.
Cosa costituiva l’area
iblea per Cosa Nostra?
La provincia ragusana
poté godere, per certi versi, di uno «statuto» a sé. Pur mancante
infatti di una tradizione, di una organizzazione di affiliati, propriamente
detta, divenne un’area di rilievo strategico, in virtù della sicurezza
inusuale dei suoi litorali. Se le province di Siracusa e Messina, prive
di famiglie organizzate, per ragioni di contiguità territoriale, vennero
poste allora sotto l’autorità del boss catanese Giuseppe Calderone,
il territorio ibleo, al pari di alcune aree campane, finì sotto la
diretta «giurisdizione» dei boss contrabbandieri di Palermo, che ne
fecero una sorta di enclave, amministrato localmente dal boss vittoriese
Giuseppe Cirasa. E le presenze nell’Ippari, lungo gli anni settanta
e ottanta, di personaggi come i Rimi di Trapani, i Greco di Palermo,
i cugini Salvo di Salemi, il vice capo della commissione Girolamo Teresi,
ne furono un significativo risvolto.
Fatta questa premessa,
circa i caratteri del cono d’ombra, andiamo allo specifico dei due
delitti del 1972. Da un’ampia sequela di indizi esposti in
Segreto di mafia, emerge che l’uccisione dell’ingegnere Angelo
Tumino, palazzinaro e viveur ragusano di una certa fama, potè
essere originato da uno sgarro, sullo sfondo dei contatti che il medesimo,
grosso collezionista d’arte, aveva stabilito con il mercato illegale,
sotto l’egida dei boss contrabbandieri che operavano nell’area. Tumino
era allora un colluso o una vittima?
Dai dati disponibili
non emerge che l’ingegnere fosse un colluso: che fosse uso, per esempio,
a ricevere regalie in cambio di favori. Né del resto era in condizione
di farne, perché prese a interessarsi di cose d’arte negli ultimi tre-quattro
anni della sua vita, quando non ricopriva cariche pubbliche, aveva ridotto
notevolmente i propri impegni nell’edilizia residenziale, si era pressoché
ritirato dalla vita mondana, recava infine un figlio da accudire, nato
da una relazione occasionale. Tanti elementi fanno evincere piuttosto
che Tumino, nel momento più gramo della sua carriera, si introdusse
nel mercato illegale da privato, convinto che con la mafia si potessero
fare affari senza rischi. E con buona probabilità, proprio la convinzione
di avere a che fare con contraenti normali, tale da fargli sentire normale
pure la vicinanza di un pluripregiudicato come Giovanni Cutrone, che
si qualificava come esperto d’arte, gli fu fatale. L’ingegnere non
dovette calcolare a sufficienza che l’insorgere di un qualsiasi contenzioso
lo avrebbe esposto al rischio di vita. In definitiva, non doveva conoscere
a fondo la mafia. E anche questo comprova che, per quanto disinvolto
nel condurre i propri affari, non poteva esserne autenticamente colluso.
Come si pone in tale
quadro la figura di Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale
di Ragusa e grande amico di Tumino? Fu un colluso o una vittima?
L’ipotesi che il giovane
Campria fosse un colluso appare anch’essa inattendibile. Con buona
probabilità, non lo fu in nessun passaggio della vicenda. Era un giovane
problematico, recante una personalità fragile. Si ritrovò, verosimilmente,
nella medesima condizione del Tumino, perché a questo si accompagnava,
seguendone le movenze e gli stili. Di certo conosceva le cose del passato
recente, per esserne stato testimone. Non poteva essere quindi all’oscuro
delle ragioni per le quali il suo amico era stato ucciso. E già una
cosa del genere, tenuto conto del carattere e soprattutto dello status
del Campria, che non poteva essere appunto quello di un colluso, dovette
bastare a mettere in allarme gli uccisori del palazzinaro. In definitiva,
a prescindere da tutto, esistevano le condizioni perché il giovane
fosse tenuto sotto osservazione. Ma numerosi fatti, dal 25 febbraio
1972 in avanti, testimoniano che la situazione dovette essere ben più
complessa. Il figlio del magistrato non recava le movenze di chi conosce
solo le esteriorità e gli antecedenti di una storia. Sin dai primi
momenti si mosse goffamente, manifestando atteggiamenti che destarono
sospetti. Circa gli spostamenti nel giorno del delitto, di cui diede
testimonianza appena un giorno dopo, fu inoltre sconfessato clamorosamente
da una testimone, Elisa Ilea, le cui parole, se meglio considerate,
avrebbero potuto costituire il punto di svolta dell’intera inchiesta
giudiziaria. Le movenze del Campria erano in sostanza quelle di chi
interagisce con gli eventi in modo sincrono, muovendosi magari con difficoltà,
ma con una forte cognizione delle cose.
Il figlio del giudice
poté avere responsabilità dirette riguardo alla morte dell’ingegnere?
Il sospetto, emerso sin
da subito, rimane fino a oggi privo di riscontri e manifesta delle incongruenze.
È invece altamente verosimile che Campria fosse presente, quale testimone
involontario, sulla scena dell’uccisione oppure ad eventi direttamente
collegati al delitto. In tutti i casi, le conoscenze del medesimo, del
presente più che delle cose passate, del delitto più che degli eventi
scatenanti, dovettero creare non poca inquietudine negli uccisori di
Tumino, tanto più dopo l’irruzione in scena del giornalista Giovanni
Spampinato, appena due giorni dopo il delitto.
Perché
gli uccisori non provvidero a eliminare subito Campria, se ravvisarono
nella sua persona un testimone scomodo e pericoloso?
Gl’indizi
passati al vaglio suggeriscono una ipotesi congrua. L’eliminazione
fisica del Campria avrebbe potuto avere effetti devastanti. Attraverso
una sequela di messaggi depistanti, il caso Tumino era stato ricondotto,
tanto in sede istruttoria quanto nelle voci della città, lungo tre
percorsi alternativi, tutti inconsistenti: il delitto passionale, il
regolamento di conti nell’ambito del commercio antiquario, il delitto
per rapina. Ebbene, se dopo quel 25 febbraio fosse stato ucciso il figlio
del più alto magistrato di Ragusa, le tre piste sarebbero sfumate in
un baleno. A quel punto, la pista della grande criminalità sarebbe
emersa clamorosamente e senza indugio. Il cono d’ombra del sud-est
ne sarebbe uscito interamente illuminato, dieci anni prima che Giuseppe
Fava, con l’esperienza de «I Siciliani», e poi con la sua morte,
ne mettesse a nudo l’essenza, i traffici, i potentati occulti. Le
strategie dell’ordine pubblico ne sarebbero potute uscire quindi rivedute,
gli organici delle caserme rafforzati. In definitiva, i traffici che
si svolgevano nell’area, garantiti fino allora dal mito della Sicilia
senza mafia, di fatto da una impenetrabile sordina, sarebbero potuti
finire in discussione, con effetti imponderabili.
Quale significato
ebbe la presenza in scena di Giovanni Spampinato?
Con il breve scoop del
28 febbraio, il giornalista de «L’Ora» e de «L’Unità» non puntò
sul Campria solo perché aveva saputo dell’interrogatorio cui era
stato sottoposto il giovane la sera del 26. Oggi si conosce l’esito
di quel colloquio. Si sa con certezza che il figlio del giudice non
era stato ascoltato nelle vesti di persona sospettata. Spampinato aveva
raccolto bensì il sospetto da una fonte di prim’ordine, costituita
Mario Tumino, fratello del palazzinaro ucciso. E solo forte di tale
aggancio decise di incalzare il Campria. L’informatore del cronista
di certo non era a conoscenza dei rapporti che aveva intessuto il fratello
con certi ambienti, ma, come emerge dalle sue deposizioni, aveva il
sentore di qualcosa, che gli venne facile associare con le condotte
anomale del Campria, del passato e del presente. Dal canto suo, Spampinato
mancava di troppi tasselli per potersi orientare con pienezza. Colse
tuttavia quel sentore, elaborò quel sospetto sul giovane, corroborato
appunto dalle movenze goffe e incoerenti del medesimo nei giorni successivi
al delitto.
Come poté
essere avvertito l’impegno di Spampinato dagli uccisori di Tumino?
Di certo il cronista
era finito su una pista pericolosa. Come emerge dalla lettera che inviò
alla collega de «L’Ora» Angela Fais il 28 febbraio, dalla memoria
che il 5 aprile indirizzò alla federazione del PCI di Ragusa e da alcune
inchieste sullo squadrismo in Sicilia che uscirono sul quotidiano da
fine febbraio a maggio, andava convincendosi che l’uccisione di Tumino
fosse maturata nell’ambito di una trama che riuniva trafficanti d’arte
ed eversori neofascisti. Ebbene, sulla scorta dei dati che si possiedono,
tale ipotesi appare caduca. Pur non potendo recare alcuna cognizione
dei fatti, il giornalista era tuttavia nel perimetro della verità,
partecipando, si direbbe per induzione, a quella di cui era custode
Campria. Al di là dei propri convincimenti, più di ogni altro, quindi,
era nelle condizioni di svelare il segreto dell’uccisione del 25 febbraio.
E tanto più lo divenne quando ebbe modo di interloquire di persona
con il figlio del magistrato. In definitiva, più preoccupante della
parola di Spampinato, dovette risultare il gesto. Prova ne è che il
giornalista venne ucciso dopo che aveva smesso da mesi di scrivere sul
caso.
Le inchieste di Spampinato
sul caso Tumino quale impatto recavano sugli ambienti che avevano determinato
il delitto del 25 febbraio?
Di certo, gli articoli
usciti su «L’Ora» recavano uno rilievo a prescindere. Il cronista
andava necessariamente a tentoni, sollecitato tuttavia da un sentire
divergente che gli consentiva di slargare il circolo delle supposizioni.
Nei suoi scritti, se non poteva offrire quindi risposte, poneva numerose
domande, che, seppure in modo necessariamente largo, evocavano poteri
occulti e criminali. Il primo sulla vicenda usciva con il seguente titolo:
Delitto Tumino. Una pista è la mafia. E non si trattava evidentemente
di una pista seguita dagli inquirenti, ma di una intuizione, per certi
versi di un suggerimento investigativo. Il 28 aprile Spampinato dava
conto delle tattiche di depistaggio in corso, che evocavano menti molto
sofisticate, mentre scartava l’ipotesi del delitto per rapina. Nell’articolo
del 7 luglio, quando l’inchiesta giudiziaria non faceva alcun passo
in direzione del delitto organizzato, si chiedeva: «Come mai il corpo
appariva rivestito e sistemato con cura? Poteva un uomo solo spostare
il cadavere dell’ingegnere, che pesava più di cento chili?». Nelle
inchieste che il giornalista andava conducendo in quei mesi, sulle trame
neofasciste, erano inoltre costanti i riferimenti alle attività di
contrabbando nel sud-est.
Ecco, le inchieste
di Spampinato sull’eversione nera in Sicilia, che rilievo avevano?
Tali approfondimenti
dovevano destare non poca preoccupazione, soprattutto negli ambiti di
mafia. Con le sue denunce il giornalista finiva infatti con l’orientare
l’attenzione pubblica, non soltanto siciliana, su un’area che doveva
rimanere in ombra, con possibili pregiudizi per gli affari che vi si
conducevano.
Esistevano in quegli
anni degli accordi, tattici o strategici, fra eversori neri e mafia?
Gli obiettivi e le metodologie
operative erano del tutto differenti. Il neofascismo faceva in quegli
anni un gran rumore. E anche nell’est siciliano le cose andavano così.
A Catania, divenuta in quegli anni la maggiore roccaforte italiana della
destra con il 30 per cento dei voti al partito di Almirante, si giunse
alla distruzione della federazione provinciale del Pci. A Siracusa fu
un succedersi di attentati, soprattutto alle sedi della CGIL. Ragusa
conobbe numerosi atti di squadrismo. Le operazioni di sbarco e di transito
dei tabacchi lavorati, gestite dalla mafia, necessitavano invece del
massimo di sordina. Si può quindi escludere che potessero esistere
accordi strategici, o solo tattici, fra i boss del contrabbando e i
neofascisti, tanto più nel «quieto» sud-est.
Dinanzi agli azzardi
del giornalista come si poterono porre gli uccisori di Tumino?
Evidentemente, l’uccisione
in stile mafioso del giornalista che indagava sulla vicenda avrebbe
fatto in Italia un gran rumore, con l’effetto di mettere a repentaglio
gli equilibri e i silenzi su cui reggevano il contrabbando e le connessioni
del sud-est. Va ricordato d’altronde che appena due anni prima il
rapimento del redattore de «L’Ora» Mauro De Mauro aveva destato
indignazione in tutto il paese e aveva attratto cronisti da ogni parte
del mondo. Si avrebbe potuto avere beninteso buon gioco nel depistare
l’attenzione generale e le indagini in direzione del neofascismo su
cui indagava il giornalista, ma le cose non sarebbero cambiate di tanto.
Il clamore si sarebbe avuto a prescindere. La pista della mafia sarebbe
potuta emergere ugualmente, pure avvalorata da talune intuizioni dello
stesso Spampinato. Campria, che costituiva il punto più permeabile
della vicenda, sarebbe potuto finire poi stretto d’assedio, da segmenti
dell’informazione, dalla magistratura, con il rischio fondatissimo di
un definitivo crollo. La storia è andata tuttavia diversamente,
perché l’uccisione del cronista, compiuta da Campria nella notte
del 27 ottobre 1972, è stata registrata come l’epilogo di una storia
privata.
Su
Segreto di mafia viene tuttavia documentata, sulla scena dell’uccisione,
la presenza di un misterioso individuo.
È la prova che anche nel caso di Giovanni Spampinato si trattò
di un delitto organizzato?
Tale presenza sul luogo
e nel momento dell’uccisione, avvenuta appunto in piena notte, costituisce
evidentemente un dato importante, che pone numerosi interrogativi, cui
non è possibile, al momento, dare risposte definitive. I dati che sono
stati documentati legittimano comunque una lettura del delitto ben distante
da quella emersa nei vari gradi del processo.
Fonte:
“L’Isola Possibile”. Rivista supplemento mensile de
“Il Manifesto”, 28 gennaio 2009.
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