Rosarno, terra di confine
Hanno protestato
perché, nonostante siano invisibili per la legge, esistono. Perché
nonostante siano privi di diritti hanno comunque dei bisogni primari.
Hanno paura che nuove violenze possano colpirli e così denunciano quelle
subite. Hanno freddo e chiedono che sia riparato il tetto del capannone
in cui vivono. Hanno fame e provvedono nel loro cortile ad uccidere
animali e a cucinarli. Sono i cittadini extracomunitari che prestano
la manodopera presso i campi di Rosarno.
Di recente
il commissario prefettizio insediatosi all’indomani dello scioglimento
per mafia del comune, Domenico Bagnato, ha ribadito interventi esclusivamente
orientati alla gestione dell’emergenza umanitaria, quali la messa in
sicurezza del capannone in cui vivono i centinaia di giovani africani
– tra i 20 e i 28 anni – provenienti da Burkina Faso, Costa
d’Avorio, Mali, Nigeria e Ghana, e la predisposizione di un servizio
di assistenza sanitaria gratuita. Solo emergenza umanitaria. Come se
la vita in quel capannone non fosse di per sè un’emergenza umanitaria
senza il bisogno che a determinarla fosse la sola condizione di clandestinità
di tali cittadini stranieri, senza il bisogno che alcuni episodi di
violenza e il rischio di epidemie non rendessero necessaria e doverosa
una risposta esplicita delle istituzioni.
Forse nei
prossimi mesi anche una bonifica dell’area, ormai abbandonata da anni,
ma nessuna assistenza legale. Non si può chiedere di più per persone
che sono fuori legge. Intanto continua ad essere prezioso il contributo
di Medici Senza Frontiere; il portale terrelibere.org, che già aveva
condotto un’inchiesta nel 2006, si propone di tenere accesi i riflettori
su Rosarno e sulla situazione della ex-Cartiera, insistente in realtà
sul territorio del comune di San Ferdinando, dove oltre cinquecento
immigrati vivono adesso in condizioni lontane da ogni dimensione dignitosa
ma vicine ad una dimensione illegale e mafiosa. A dimostrazione di ciò
non vi sono solo tre amministrazioni sciolte per mafia in meno di venti
chilometri, ma vi è anche la consapevolezza che questa manodopera sfruttata,
in una terra afflitta da un endemico lavoro nero, rientra in un contesto
di economia sofferente alla cui tavola la ‘Ndrangheta è già da tempo
accomodata.
Sfruttati
per far fruttare la terra di Calabria. Sono centinaia di cittadini extracomunitari
prima dall’est Europa e poi dall’Africa. Sparsa la voce, oggi neanche
più vera, per cui a Rosarno c’era lavoro, si arrivava dopo l’estate
per raccogliere arance e mandarini, lavorare nei campi sfruttati per
tutto il giorno al prezzo di 25 euro, trasporto escluso fino ai campi,
e si ripartiva in primavera verso la Puglia per la raccolta di pomodori.
Risorse preziose per l’economia locale ma irregolari. In una parola
clandestini. Emarginati, discriminati e vittime di violenze. Solo nel
mese di dicembre una rapina e un’aggressione con ferimento ai
danni di due cittadini ivoriani.
Tutto permane
tranne un aspetto. C’è ancora lo sfruttamento, si registrano episodi
di violenza, ci sono ancora centinaia di giovani africani –
che vivono in baracche di cartone, ma non c’è più lavoro per tutti.
Crescono il rischio di malattia e il degrado in cui queste persone si
trovano a “vivere”. Al campo di lavoro vengono trasportati,
su cinquecento, solo poco più di cento persone immigrate. Tutti gli
altri rimangono in quella che ormai chiamano “fabbrica”, territorio
di San Ferdinando, comune sciolto per infiltrazione mafiosa intervenuto
con il limitrofo comune di Rosarno con l’istallazione di infissi e di
qualche servizio igienico prima del recente commissariamento.
Ma il quadro
in questo lembo di Calabria è abbastanza complesso: lo scorso ottobre
arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa il primo cittadino
di Rosarno Carlo Martelli, considerato dalla DDA di Reggio Calabria,
unitamente al sindaco e al vicesindaco di Gioia Tauro, rispettivamente
Giorgio Dal Torrione e Rosario Schiavone, referente di Gioacchino Piromalli
anche lui tratto in arresto nella stessa operazione; poi la stessa amministrazione
di Rosarno sciolta per infiltrazioni mafiose lo scorso dicembre insieme
a quella di San Ferdinando e otto mesi dopo quella di Gioia Tauro (aprile
2008). Quest’ultima sciolta dopo quattro mesi di lavoro della commissione
di accesso per l’accertamento delle infiltrazioni della criminalità
organizzata nella sue attività. Indagato ma non imputato, il sindaco
di San Ferdinando, Francesco Barbieri.
A possedere
ettari di terreno in questa zona della piana vi sono anche famiglie
il cui cognome è impresso con il sangue nella storia della Calabria
e di questa terra. I Piromalli figurano tra le cosche più potenti del
reggino e quindi dell’intera regione. Una potenza scalfita a fatica
anche dalla legge 109 del 1996, che dispone la riutilizzazione sociale
dei terreni confiscati alla mafia, quando l’effettiva riutilizzazione
è costata all’amministrazione dell’allora sindaco Giuseppe Lavorato
continue sollecitazioni per la destinazione al comune rosarnese dei
terreni confiscati ai Piromalli nel 1999 e una spesa che, nonostante
il formale impegno della Regione, ricadde interamente sulle spalle dell’Amministrazione
comunale.
La Modul
System, concosciuta come la cartiera, è la fabbrica realizzata con
finanziamenti governativi nel 1992 per costruire telescriventi a Rosarno,
vocata da sempre all’economia agricola. E infatti tale investimento
si rivelerà, come tradizione al Sud, un fallimento e la struttura diverrà
il capannone che ospita i migranti di passaggio a Rosarno per raccogliere
le arance. L’economia agricola era florida a Rosarno prima che i tentacoli
della ‘Ndrangheta non la stritolassero, non ne manipolassero i fisiologici
meccanismi di concorrenza, prima che la mega truffa delle arance di
carta del 2007 non abbattesse fatalmente il prezzo delle cassette di
arance arrivate a costare – quelle da industria – 6 centesimi di euro
al chilogrammo. Concimazione e lavorazione del terreno, semina e raccolta.
Tutto in sei centesimi. Niente sviluppo. Nessuna crescita. In questi
sei centesimi c’è solo spazio per lo sfruttamento dei migranti, perchè
“altri” devono guadagnare; spesso neanche gli stessi agricoltori
sistematicamente sollecitati a vendere a questo piuttosto che a quello.
Una volta possedere un ettaro di terra a Rosarno equivaleva a possedere
ricchezza. Ma erano altri tempi. Quei tempi in cui la criminalità mafiosa
non aveva invaso l’economia. Quei tempi in cui i calabresi, quelli onesti,
avrebbero potuto accrescere la ricchezza di questa regione invece di
vederla divorare da quelli “cattivi”.
Così a Rosarno
si incrociano problematiche di scottante attualità anche sul fronte
dell’immigrazione in un tempo in cui essere immigrato equivale ad
appartenere alla categoria zeta. Quella degli espulsi, con l’Italia
al primo posto con 6 mila rimpatri in soli tre mesi nel 2008. Quella
dei trasferimenti di massa verso la Libia con cui il ministro Maroni
ha aperto il nuovo anno. Cosa può una singola e piccola amministrazione
della Calabria, con una così alta densità di immigrati, in uno scenario
così complicato? Probabilmente poco. Ma questo poco deve essere fatto.
Una questione di civiltà. Una questione di rispetto anche per la cittadinanza
rosarnese, spesso pregiudicata da un contesto territoriale spinoso quale
quello della Piana. E come ogni cosa in Calabria, una questione di libertà
dall’oppressione mafiosa che non disdegna di sopraffare anche i cittadini
extracomunitari.
( www.strill.it – 7 gennaio 2008)
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