Dopo i magistrati tocca ai giornalisti: Vulpio ”trasferito” da Catanzaro
Avevo fatto una battuta: avevo detto: i giornalisti, a differenza dei
magistrati, non possono essere trasferiti. Avrei fatto meglio a stare
zitto. Da lì a poco sarei stato “trasferito” anch’io.
E’ stato la sera del 3 dicembre, dopo che sul mio giornale era
uscito un mio servizio da Catanzaro sulle perquisizioni e i sequestri
ordinati dalla procura di Salerno nei confronti di otto magistrati
calabresi e di altri politici e imprenditori.
http://www.carlovulpio.it/Lists/Roba%20Nostra/DispForm.aspx?ID=12
Come
sempre, non solo durante questa inchiesta, ma perché questo è il mio
modo di lavorare, avevo “fatto i nomi”. E cioè, non avevo omesso di
scrivere i nomi di chi compariva negli atti giudiziari (il decreto di
perquisizione dei magistrati di Salerno, che trovate su questo blog in
versione integrale) non più coperti da segreto istruttorio. Tutto qui.
Nomi noti, per lo più. Accompagnati però da qualche “new entry”: per
esempio, Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, Mario Delli Priscoli,
procuratore generale della Corte di Cassazione, Simone Luerti,
presidente dell’Associazione nazionale magistrati.
Con una
telefonata, il giorno stesso dell’uscita del mio articolo, la sera del
3 dicembre appunto, invece di sostenermi nel continuare a lavorare sul
“caso Catanzaro” (non chiamiamolo più “caso de Magistris”, per favore,
altrimenti sembra che il problema sia l’ex pm calabrese e non ciò che
stanno combinando a lui, a noi, alla giustizia e alla società
italiana), invece di farmi continuare a lavorare – dicevo –, come
sarebbe stato giusto e naturale, sono stato sollevato dall’incarico.
Esonerato. Rimosso. Congedato. Trasferito.
Con
una telefonata, il mio direttore, Paolo Mieli, ha dichiarato concluso
il mio viaggio fra Catanzaro e Salerno, Potenza e San Marino, Roma e
Lamezia Terme. Un viaggio cominciato il 27 febbraio 2007, quando
scoppiò “Toghe Lucane” (la terza inchiesta di de Magistris, con
“Poseidone” e “Why Not”). Un viaggio che mi fece subito capire che da
quel momento in poi nulla sarebbe stato più come prima all’interno
della magistratura e in Italia.
Tanto è vero che
successivamente ho avvertito la necessità di scrivere un libro (“Roba
Nostra”, Il Saggiatore), che, dicevo mentre lo consegnavo alle stampe,
“è un libro al futuro”. Una battuta anche questa, certo, perché come si
fa a prevedere il futuro? In un libro, poi, che si occupa di incroci
pericolosi tra politica, giustizia e affari sporchi… Ma si vede che
negli ultimi tempi le battute mi riescono piuttosto bene, visto che
anche questa, come quella sul “trasferimento” dei giornalisti, si è
avverata.
Avevo detto – e lo racconto in “Roba Nostra” – che in
Basilicata l’anno scorso è stato avviato un esperimento, che, se
nessuno fosse intervenuto, sarebbe stato riprodotto da qualche altra
parte in maniera più ampia e più disastrosa.
E’ accaduto che
mentre la procura di Catanzaro (c’era ancora de Magistris) stava
indagando su un bel numero di magistrati lucani, di Potenza e di
Matera, la procura di Matera (gli indagati) si è messa a indagare sugli
indagatori (de Magistris). Come? Surrettiziamente. E cioè? Si è
inventato il reato di “associazione a delinquere finalizzato alla
diffamazione a mezzo stampa” e ha messo sotto controllo i telefoni di
cinque giornalisti (me compreso) e un ufficiale dei carabinieri (quello
delegato da de Magistris per le indagini sui magistrati lucani). Così
facendo, i magistrati indagati hanno potuto conoscere cosa si dicevano
gli indagatori (de Magistris e l’ufficiale delegato a indagare).
Avvertivo: guardate che così va a finire male.
Chiedevo: caro Csm, caro Capo dello Stato, intervenite subito.
Niente.
Nemmeno una parola, un singulto, un cenno. Nemmeno quando era chiaro a
tutti che quei magistrati lucani, al di là di ogni altra
considerazione, vedevano ormai compromessa la loro terzietà. Un
magistrato – si dice sempre, e a ragione -, come la moglie di Cesare,
deve non soltanto “essere”, ma anche “apparire” imparziale, terzo, non
sospettabile di alcunché. Per i magistrati lucani, invece, non è così.
Nonostante siano parti in causa, essi continuano a indagare sugli
indagatori, chiedono e ottengono proroghe di indagini (siamo alla
quarta) perché, dicono, il reato che si sono inventati, l’associazione
a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa, è
complicatissimo. E rimangono al proprio posto nonostante le
associazioni regionali degli avvocati ne chiedano il trasferimento, per
consentire un funzionamento appena credibile della giustizia.
Niente.
Si è lasciato incancrenire il problema ed ecco replicato l’esperimento
a Catanzaro. La “guerra” fra procure non è altro che la riproduzione di
quel corto circuito messo in atto da indagati che indagano sui loro
indagatori, affinché, rovesciato il tavolo e saltate per aria le carte,
non si sappia più chi ha torto e chi ha ragione perché, appunto, “c’è
la guerra”. E dopo la “guerra”, ecco la “tregua” o, se preferite,
“l’armistizio” (così, banalmente ma non meno consapevolmente, tutti i
giornali, salvo rarissime eccezioni di singoli commentatori).
Guerra
e tregua. E’ questo il titolo dell’ultima, penosa sceneggiata italiana
su una vicenda, scrivo in “Roba Nostra”, che è la “nuova Tangentopoli”
italiana. Quando, sei mesi fa, è uscito il libro, qualcuno mi ha
chiesto se non esagerassi. Adesso, l’ex presidente della Repubblica,
Carlo Azeglio Ciampi, dichiara: “Ciò che sta accadendo oggi è peggio di
Tangentopoli”. E Primo Greganti, uno che se ne intende, ammette anche
lui, che “sì, oggi è peggio di Tangentopoli”.
Infine, una curiosità, o una coincidenza, o un suggerimento per una puntata al gioco del Lotto, fate voi.
Mi
hanno rimosso dal servizio che stavo seguendo a Catanzaro il 3 dicembre
2008. Esattamente un anno prima, il 3 dicembre 2007, Letizia Vacca,
membro del Csm, anticipava “urbi et orbi” la decisione che poi il Csm
avrebbe preso su Clementina Forleo e Luigi de Magistris. “Sono due
cattivi magistrati, due figure negative”, disse la Vacca. E Forleo e de
Magistris sono stati trasferiti. Per me, più modestamente, è bastata
una telefonata. Ma diceva più o meno la stessa cosa. Diceva che sono un
cattivo giornalista.
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