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Caso De Magistris

Di Chiara Spagnolo il . Sicilia

Le indagini sull’utilizzo dei fondi europei destinati allo sviluppo
della Calabria si sono trasformate in una guerra tra Procure. Catanzaro
contro Salerno, l’una contro l’altra armate, con il Csm in mezzo nel
tentativo di calmare le acque e il ministro della Giustizia che
approfitta della ghiotta occasione per riproporre il leit motiv di una
riforma dell’ordinamento giudiziario non condivisa dall’opposizione
parlamentare né dalla magistratura.

Il “caso De Magistris”, scoppiato
un anno fa nel capoluogo calabrese, non poteva avere epilogo peggiore.
E, del resto, epilogo non ha ancora avuto se i procedimenti aperti dal
Consiglio superiore della magistratura sono appena all’inizio. La
strada, evidentemente, è ancora lunga e quanto accaduto finora non
lascia presagire nulla di buono. Soprattutto sul fronte delle indagini
“Why not” e “Poseidone”, finite nel tritacarne di una storia che ha
contorni paradossali e dalla quale sembra potersi trarre un’unica
lezione: i cittadini non sono tutti uguali di fronte alla legge. Una
constatazione amara ma realistica, se è vero che l’inferno di un caso
che ha trascinato la magistratura italiana in una “guerra civile” senza
precedenti ha avuto origine dalla volontà ferma di indagare sui sistemi
di potere che in Calabria avrebbero gestito, e dirottato, i fondi
europei destinati alla soluzione dell’emergenza ambientale e allo
sviluppo del settore del lavoro interinale. Di quelle indagini, oggi, è
rimasto ben poco.

Nelle carte e nella mente dell’opinione pubblica, la
cui attenzione è stata prepotentemente spostata sul conflitto aspro tra
due Procure e sulle accuse incrociate tra magistrati che rischiano di
finire tutti ai margini delle attività svolte finora. Il livello dello
scontro, infatti, è altissimo. La tensione alle stelle da martedì 2
dicembre, quando sette pm di Salerno, coordinati dal procuratore capo
Luigi Apicella, si sono presentati a Catanzaro con tanto di decreto di
perquisizione nei confronti di sette colleghi e di sequestro dei
fascicoli di “Poseidone” e “Why not”. I capi d’imputazione ipotizzati a
carico dei vertici della Procura di Catanzaro sono dei più gravi:
corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, falso ideologico,
calunnia. La tesi, a sostegno delle perquisizioni, inquietante: secondo
i giudici campani a Catanzaro sarebbe stato ordito un vero e proprio
complotto per fermare le inchieste del pm Luigi De Magistris. Una serie
di passaggi sarebbero stati compiuti dai magistrati, in combutta con
avvocati e indagati, per bloccare quell’attività che avrebbe potuto
travolgere nello scandalo personaggi che appartengono ai più alti
livelli istituzionali. In tale prospettiva, nessuno avrebbe risparmiato
nulla. Tutto sarebbe stato architettato per arrivare all’obiettivo
finale: far trasferire De Magistris da Catanzaro, prendere in mano le
sue inchieste e farle a pezzi.

Un’idea devastante. Che i pm di Salerno
hanno sposato dopo un anno di attività investigativa costruita su
centinaia di interrogatori, analisi di tabulati e di intercettazioni
telefoniche, ricostruzione di atti giudiziari e della voluminosa
rassegna stampa a corredo del “caso”. A fronte di quella mossa la
Procura generale di Catanzaro ha reagito con inaspettata violenza:
bloccando i fascicoli di “Poseidone” e “Why not” e facendo recapitare
ai magistrati di Salerno avvisi di garanzia per abuso d’ufficio e
interruzione di pubblico servizio. Inoltre il procuratore generale,
Enzo Iannelli, ha chiamato in causa i vertici dello Stato, additando
davanti al presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia,
l’indagine di Salerno come un’attività “eversiva”. Come se non
bastasse, i pm di Catanzaro hanno denunciato le illecite modalità con
cui sarebbero state effettuate le perquisizioni, spingendosi – nel caso
del sostituto procuratore Salvatore Curcio – a dichiarare che gli
investigatori incaricati di effettuare la perquisizione l’avrebbero
fatto denudare. Fatti gravi, dunque. Gravissimi ma terribilmente
confusi. Piovuti con una sorprendente tempestività addosso ad un Csm
che, nella sua prima decisione, ha già dimostrato di voler mantenere
una linea di imparzialità nella guerra tra le Procure di Catanzaro e
Salerno. All’esito della prima riunione tenuta venerdì dalla competente
del Consiglio superiore, infatti, sono state avviate le procedure di
trasferimento per incompatibilità ambientale del procuratore di
Salerno, Luigi Apicella, e del procuratore generale di Catanzaro, Enzo
Iannelli. Entrambi, a detta del Csm, avrebbero agito in maniera non del
tutto corretta. Lo stesso potrebbero aver fatto altri magistrati, sia
dell’una che dell’altra Procura, che saranno ascoltati in questi giorni
dal “tribunale delle toghe”. Nulla esclude che, all’esito degli
accertamenti, saranno avviati nuovi procedimenti per altri giudici. Il
che significa che l’obiettivo prioritario, che si è palesato fin
dall’inizio di questa brutta storia, ovvero bloccare le indagini, è
stato raggiunto.

I modi e i tempi dello scontro in atto, infatti,
stanno facendo passare in secondo piano alcuni aspetti molto importanti
del “caso De Magistris”, cioè il fatto che la Procura della Repubblica
di Salerno, competente ad indagare su episodi che hanno come
protagonisti i magistrati catanzaresi, sta verificando da un anno e
mezzo quanto è accaduto nel capoluogo calabrese negli ultimi cinque
anni. L’iniziale teorema accusatorio, in base al quale il pm De
Magistris avrebbe compiuto una serie di illeciti, si è totalmente
sgretolato prima dell’estate, tanto che nei suoi confronti è già stata
presentata una dettagliata richiesta di archiviazione. Al contrario,
altre persone sono state ritenute responsabili di una serie di reati
più o meno gravi. Sono i vertici della Procura di Catanzaro, insieme a
politici di elevato spessore e ad imprenditori potenti. Nei loro
confronti sono state mosse accuse gravi, ma anche queste indagini
potrebbero essere fermate se il Csm deciderà di aprire altri
procedimenti nei confronti dei magistrati di Salerno che le hanno
coordinate. La storia, oggi, sembra ripetersi identica ad un anno fa.
Eppure nelle carte messe insieme dalla Procura campana di carne al
fuoco ce n’è davvero tanta. Dichiarazioni di fuoco, effettuate da una
serie di testimoni importanti. Come il pm crotonese Pierpaolo Bruni,
già componente del pool che ereditò “Why not” dopo l’avocazione di De
Magistris, che ha ripetutamente denunciato di non avere condiviso la
scelta di archiviare la posizione dell’ex guardasigilli Clemente
Mastella e di non avere approfondito le ipotesi a carico dell’ex
premier Romano Prodi. Senza dimenticare che lo stesso Bruni aveva
sollecitato ai colleghi del pool la trasmissione di alcuni atti di “Why
not” alla Procura della Repubblica di Salerno. Le sue parole, oggi,
sono nelle 1700 pagine del decreto di perquisizione firmato da un
intero pool di magistrati, insieme a quelle di moltissime altre
persone, che sono servite a ricostruire un puzzle davvero complicato.
L’indagine era arrivata ad un momento importante. Non ancora chiusa e
con infinite possibilità di sviluppo. Anche questa volta, però, si
concretizza una ferma volontà di non arrivare in alcun modo al
processo. Le regole della democrazia si sovvertono con una facilità
inaudita, permettendo che – di nuovo – qualcuno dica ai magistrati come
devono o non devono indagare. Ad una richiesta di sequestro si risponde
con un sequestro, a sette avvisi di garanzia con sette avvisi di
garanzia. Nessuno è libero di compiere il proprio dovere. Nessuno può
più permetterselo, dal momento che tutti sono impegnati a difendersi
davanti al Csm. Il Consiglio superiore, dal canto suo, annaspa tra
cavilli burocratici ed equilibrismi tecnici e, di nuovo,
pericolosamente, il succo delle indagini passa in secondo piano. La
storia, in ogni caso, è ancora tutta da scrivere.

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