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Il boss è morto, il boss è vivo: la storia dei Messina Denaro di Castelvetrano. Il “papa” della nuova mafia

Di Rino Giacalone il . Dai territori, Sicilia

Il «campiere»
con il bisturi
. Così era definito Francesco Messina Denaro, il
«patriarca» della mafia del Belice, morto a 70 anni il 30 novembre
del 1998. Un infarto, una morte di crepacuore alla notizia dell’arresto
del maggiore dei figli maschi, Salvatore, che faceva il preposto alla
Comit di Sciacca, un’agenzia che aveva il record delle transazioni internazionali.
Quando morì era latitante da otto anni il vecchio Messina Denaro, ma
questo non gli impediva di incassare ogni mese una pensione elargita
dall’Inps da 1 milione e 200 mila lire.

Ad ogni anniversario
della sua morte puntualmente in ogni edizione del Giornale di Sicilia
del 30 novembre ha fatto la comparsa sino a quello appena trascorso
del 30 novembre 2008, un necrologio a ricordare il capo mafia. Lo hanno
fatto pubblicare i suoi familiari. Necrologi, tranne l’ultimo, sempre
accompagnati da un commento, una frase presa dalle sacre scritture,
una massima latina. Quest’anno invece assolutamente semplice, il nome
del defunto e la frase di ricordo dei cari. Francesco Messina Denaro
resta l’unico boss capo mafia defunto ad essere così con grande puntualità
ricordato. Quasi ad evocarne la presenza.

Il campiere
con il bisturi perchè? Intanto perché di mestiere Francesco Messina
Denaro faceva questo, il «campiere» nei latifondi delle più importanti
famiglie, una tra tutte la famiglia dei trapanesi D’Alì, lavorando
tra complicità e soggiogazioni o presunte tali, «incideva» come
un chirurgo quei terreni con il suo passaggio, usava il «bisturi»
quando c’erano i problemi da risolvere: per affrontare i «guai» dentro
le «famiglie» di mafia, prima le parole che «lasciavano il segno»
poi se, era inevitabile, il passaggio all’uso delle armi che lasciavano
un segno ancora più evidente. Impossibile a quel punto che i destinatari
non capissero chi comandava. 

Latitanza
col medico al seguito
. Quando Francesco Messina Denaro venne trovato
senza vita nelle campagne di Castelvetrano il suo nome figurava tra
gli imputati del maxi-processo «Omega»; era stato già condannato
a 10 anni e nell’aula bunker di Trapani veniva processato per una decina
di delitti. Non potrà essere processato per il delitto di Mauro Rostagno:
nell’indagine dove è coinvolto il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga,
oggi detenuto all’ergastolo, c’era coinvolto anche lui dopo che il pentito
di Mazara Vincenzo Sinacori raccontò di un incontro a Castelvetrano
tra don Ciccio e don Francesco Messina di Mazara, soprannominato “u
muraturi”, il tesoriere della cosca di Mariano Agate. I due capi mafia,
raccontò Sinacori, decisero che Rostagno andava ucciso. Anche per quegli
attacchi ripetuti a don Mariano Agate dagli schermi di Rtc. Il corpo
di Francesco Messina Denaro una notte di novembre del 1998, venne trovato
a circa 200 metri dal punto in cui un decennio addietro era stato ammazzato
il sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari. Non stava bene Francesco Messina
Denaro tanto che nella latitanza lo seguì un medico «personale»,
uomo d’onore, il partannese Vincenzo Pandolfo, che nel 2006 si è costituito
nel carcere di Pagliarelli dove si trova a scontare nove anni per associazione
mafiosa. 

La storia
della mafia belicina
indica don Ciccio Messina Denaro da sempre
come uno dei fedelissimi dei «corleonesi», anzi erano lui ad essere
ossequiato, tanto che erano i boss di Corleone a venire a Castelvetrano.

Bernardo Provenzano
era all’epoca già latitante e a bordo di una Fiat 500 da lui guidata
arrivava fino a casa di don Ciccio Messina Denaro. Un potere assoluto
quello dei Messina Denaro nel Belice e in provincia di Trapani: don
Ciccio guidò anche la cupola provinciale, «trono» che adesso appartiene
al figlio, Matteo, classe ’62 e latitante dal 1993. Droga, terreni,
il controllo del mercato della sofisticazione vinicola e la gestione
della «cassaforte » mafiosa. Non a caso il tesoro di Totò Riina venne
trovato nel «caveau» di una gioielleria di Castelvetrano, appartenuta
a Francesco Geraci, poi diventato pentito e che Matteo aveva affiliato
facendolo partecipare ad un delitto, non usando «punciute » e santini
che bruciano, ma mettendogli sul palmo della mano i resti di quel morto
appena ammazzato. Don Ciccio Messina Denaro è colui il quale dà il
segnale dell’inabissamento della mafia, quando Cosa Nostra si comincia
ad occupare di denaro da investire. 

C’era anche
lui, l’anziano patriarca, dietro le quinte di quel maxi investimento
da mille miliardi di lire che Cosa Nostra siciliana voleva compiere
a Malta, acquistando un isolotto, l’isola di Manuel, con la mediazione
di alti vertici della politica, italiana e maltese, l’influenza di un
notaio capo della massoneria in grado di coinvolgere la massoneria internazionale.
Sull’isolotto di Manuel Cosa Nostra voleva costruire quello che oggi
chiameremo un super lussuoso resort.. 
 

Don Ciccio
e don Matteo.
Padre e figlio, sempre vicini, legati l’uno all’altro.
Nella casa di Castelvetrano dove abitano i familiari in ogni stanza
ci sono le foto dei due, perché siano delle presenze costanti. Così
come fu per dimostrare la presenza nel territorio che, la notte del
30 novembre 1998, a poche ore da un blitz antimafia della Polizia che
sconvolse parte dell’organizzazione dei Messina Denaro, in manette finì
l’altro rampollo di quella casata, Salvatore, qualcuno si adoperò per
fare trovare al fratello di Lorenza Santangelo, la moglie del capo mafia,
il corpo senza vita del marito: indossava Francesco Messina Denaro un
abito scuro sotto al pigiama, ai piedi dei mocassini lucidi e nuovissimi.
La vedova appena giunta gli mise addosso un cappotto di astrakan nero.
Cosa voleva dire: che nonostante l’operazione condotta appena poche
ore prima erano sempre loro a comandare, il territorio restava «cosa
loro», grazie alla cosidetta «zona grigia» che non ha tardato a rigenerarsi,
ricca di «complicità ed omertà» e di una rete indefinita di fiancheggiatori,
insospettabili individui, anche estranei alle cosche, ma che non sono
risultati per nulla inconsapevoli di sorreggere gli uomini più importanti
della cupola trapanese. Aiuti i Messina Denaro ne hanno avuti e ne hanno
in ogni dove. Anche tra le navate di qualche chiesa. Ci fu, raccontò
il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori, un sacerdote di Calatafimi che,
nella canonica, avrebbe concesso ospitalità ai due latitanti, a padre
e figlio, mentre polizia e carabinieri li cercavano, c’è poi l’arciprete
Pino Biondo che il giorno dei funerali «blindati» di Francesco Messina
Denaro celebrati nel cimitero di Castelvetrano, nella sua omelia «intimò
» a tutti di non osare giudicare le azioni del defunto, «compito spettante
solo al Padre eterno». 
 
Nel momento
così dell’estremo saluto Francesco Messina Denaro fu così assolto
da quel prete e affidato al giudizio di Dio con questo assunto: «La
vicenda umana del nostro fratello la conosce solo Dio, gli uomini non
possono giudicarla». 

I Messina
Denaro e la politica.
La voce ricorrente tra chi indaga, tra magistrati
e poliziotti, è quella che non è una traccia ma quasi una impronta
precisa quella lasciata da un «politico» nei «pizzini» trovati a
Montagna dei Cavalli di Corleone dove si nascondeva il boss Bernardo
Provenzano. I «pizzini» con le “impronte” sono quelli firmati
da Alessio, l'”alias” usato da Matteo Messina Denaro, detto
anche «Diabolik». Il nome del «politico» invitato a mettersi a disposizione,
o più probabilmente a «rinnovare» un «patto» a suo tempo sottoscritto
con Cosa Nostra trapanese, è sicuramente passato dalle mani di Filippo
Guttadauro, un altro pezzo da 90. E’ cognato del super latitante di
Castelvetrano, fratello di Carlo Guttadauro il medico che faceva il
capo mafia a Bagheria. Filippo Guattadauro è marito Rosalia Messina
Denaro, figlia, sorella e quindi moglie di boss. Filippo Guttadauro
attraverso i«pizzini», aveva ricevuto l’incarico di raccogliere da
Provenzano il nome di un politico da contattare, e «Alessio» in un
«pizzino» conferma che «121» (nella cabala delle comunicazione del
capo mafia questo era il numero attribuito da Provenzano a Guttadauro)
il nome del politico lo ha ricevuto e lo ha passato a lui.

Matteo e le stragi.
La trasformazione della mafia
. Matteo Messina Denaro è ricercato
per scontare una serie di ergastoli, appresso si porta anche certi “segreti”.
E’ riconosciuto essere stato mandante e organizzatore delle stragi mafiose
di Roma, Milano e Firenze del 1993, quelle che servirono a sollecitare
col sangue di morti ammazzati, dilaniati dal tritolo che partito da
Castelvetrano attraversò mezza Italia, una trattativa con lo Stato.
Da quelle stragi in poi Cosa Nostra cambiò veste. Scelse la strategia
della sommersione. E fuori si è presentata sotto le vesti di un potente
impresa, una holding. Matteo è oramai un manager dell’economia, controlla
imprese, società, si occupa con il suo conterraneo Giuseppe Grigoli
dei supermarket più ricchi della Sicilia, quelli del marchio Despar. 

Appalti pubblici, controllo
delle commesse finiscono con il costituire l’ultimo dei suoi affari.
Le bombe hanno sortito l’effetto sperato. La mafia fu così ammessa
nei salotti della politica, delle istituzioni, dell’impresa. Da pari
a pari. 

La passione per l’arte.
Dal padre Matteo Messina Denaro ha ereditato la passione per
l’arte. Tutti e due alla loro maniera collezionisti. Francesco Messina
Denaro sarebbe stato il mandante del furto dell’Efebo di Selinunte,
una statuetta che negli anni ’60 era tenuta quasi come un porta cappelli
nello studio del sindaco di Castelvetrano. Nessuno, tranne Francesco
Messina Denaro, aveva capito il valore di quello che veniva chiamato
“u pupu”, e una notte don Ciccio lo fece rubare. La statuetta
sopravvisse al terremoto del 1968 quando si trovava nascosta dentro
la casa di un mafioso di Gibellina crollata per il terremoto, qualche
anno dopo venne infine trovata, in casa di un collezionista del settentrione.
Matteo di recente aveva pensato a rifarsi, facendo rubare il Satiro
Danzante, la famosa statua di bronzo ripescata nel canale di Sicilia.
All’epoca era custodita, dopo essere stata appena ripescata, in una
stanza di un edificio del Comune di Mazara, tenuta dentro una vasca
piena d’acqua. Solo per un caso il furto non riuscì, ma c’era già
un acquirente svizzero pronto a fare l’acquisto. Incaricato del furto
era un vigile urbano di Marsala, ora pentito, Concetto Mariano. Prima
ancora c’è la storia di un’anfora passata per le mani di Francesco
Messina Denaro che finì anche per inguaiare il super poliziotto del
Sisde Bruno Contrada. 

Le vie di fuga del giovane
don Matteo
. Mille nascondigli e mille sotterfugi per sfuggire ai
«cacciatori». A sua disposizione Matteo Messina Denaro ha avuto anche
una Alfa 164 che nella parte anteriore aveva dei mitra, quasi fosse
l’auto di «Diabolik», azionabili dal sedile di guida. A proposito
di nascondigli, nella oreficeria di Castelvetrano di Francesco Geraci
c’era una cassaforte che aperta tradiva cosa fosse, un ascensore che
portava nei sotterranei dove c’era un miniappartamento arredato di tutto
punto e dove Matteo trascorse il primo periodo di latitanza; lì incontrava
l’altro latitante, il capo dei capi Totò Riina. 
 
In quel rifugio c’era anche
quello che fu denominato il «tesoro di Riina», gioielli e preziosi
che Geraci gli custodiva. Geraci era intestatario di beni di «Totò
u curtu» che ogni anno si premurava di fargli avere il rimborso delle
tasse che lui doveva pagare. Dal super nascondiglio alla grotta. Mai
trovata, ma l’esistenza è certa. Ne parlava Pietro Virga il figlio
del capo mafia di Trapani, Vincenzo Virga: in una occasione che si preoccupava
di trovare un nuovo rifugio al padre parlò (così gli investigatori
ascoltarono attraverso le intercettazioni) di un nascondiglio in montagna
usato da Matteo Messina Denaro «dove nemmeno con l’elicottero la polizia
può arrivarci».  

I
necrologi
. Anche questi letti attentamente sono espressioni del
potere esercitato ancora oggi. Il nome del già latitante Matteo comparve
in quello pubblicato per dare l’annuncio della morte del padre, ma comparirà
anche anni dopo; addirittura in un necrologio venne usato come versetto
commemorativo un passaggio guarda caso del «Vangelo di Matteo». Nel
2007 comparve invece questa scritta nel solito necrologio: «Spatium
est ad nascendum et spatium est ad morendum sed solum volat qui id volt
et perpetuo sublimis tuus volatus fuit» e cioè «C’è un tempo per
nascere e un tempo per morire (citazione da Ecclesiaste capitolo terzo
versetto 2 -3.2) ma vola solo colui che lo vuole e sempre il tuo volo
è stato altissimo». 

Oggi Matteo Messina Denaro
nei suoi pizzini è solito salutare i suoi complici mandando la benedizione
di padre Pio e della Madonna di Lourdes. Quasi fosse un papa. Il papa
della nuova mafia.

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