0.13 M&M: il patto d’acciaio attraversa l’Umbria
Non solo Sicilia e non solo mafia dietro la catena di arresti che sono scattati lo scorso 17 giugno su mandato della Dda di Palermo dopo 4 lunghi anni di indagini condotte fra Trapani e Agrigento ovvero Castelvetrano e Mazara del Vallo, gli avamposti della mafia più sconosciuta. L’inchiesta denominata Hiram (in gergo esoterico, una colonna portante della Massoneria) ha portato alla luce un sodalizio criminale tra mafia e massoneria volto ad “insabbiare”, rallentandoli o aggiustandoli, processi di mafia.
Dall’ indagine coordinata dai pm Fernando Asaro, Pierangelo Padova, sotto la guida del procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e del procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, emerge che boss mafiosi grazie all’aiuto di persone appartenenti a logge massoniche, avrebbero ottenuto, dietro pagamento di tangenti, ricatti e favori, il rallentamento di iter giudiziari di alcuni processi in cui erano imputati affiliati delle cosche del trapanese e dell’agrigentino, in sostanza “amici” del boss latitante numero uno, Matteo Messina Denaro. Comandi che partivano dai mandamenti di Cosa nostra siciliana e che utilizzavano due intermediari umbri come terminale ultimo dentro i palazzi di Giustizia.
L’ inchiesta che ha svelato l’esistenza di questo insospettabile patto “mafioso – massonico” ha portato in manette, l’orvietano Rodolfo Grancini, 68 anni, faccendiere dalle amicizie altolocate e Guido Peparaio, 55 anni, ausiliario di cancelleria presso la seconda sezione penale della Corte di Cassazione a Roma e per molti anni in forza al Palazzo di Giustizia di Perugia. Coinvolti nell’inchiesta inoltre Rodolfo Michele Accomando, imprenditore di Mazara del Vallo arrestato nel 2007 per mafia e condannato a 9 anni e tre mesi di carcere; Calogero La Licata, funzionario del ministero delle finanze in servizio ad Agrigento; Francesca Surdo, poliziotta palermitana impiegata nella segreteria del direttore del Servizio centrale operativo della polizia di Stato. Calogero Russello, 68 anni, già indagato per mafia, e Nicola Sorrentino.
A Trapani mafia e massoneria da tempo, come dimostrano tutte le indagini dagli anni ’80 ad oggi, sono vasi comunicanti: l’onorata mafia trapanese, già ai tempi del boss Mariano Agate, sedeva nel circolo Scontrino che altro non era che una loggia massonica affiliata, via Iside 2, alla più nota P2 di Licio Gelli. Giornalisti, magistrati e inquirenti di vario ordine e grado hanno seguito negli anni questa commistione fra mafia e poteri occulti e quasi tutti hanno scorto in lontananza una pista che porta dritta al centro Italia: sospetti e non prove, però.
Ma questa volta le notizie attraversano l’Umbria, regione che con la massoneria ha un rapporto speciale, consueto e in parte ancora segreto. Perquisizioni, intercettazioni telefoniche e indagini sui conti correnti bancari di otto indagati hanno portato alla luce il ruolo centrale svolto nella “rete” dall’orvietano Rodolfo Grancini al quale la Dda ha contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (in aggiunta a quelli di peculato, corruzione in atti giudiziari, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari e rivelazione di atti di ufficio).
Grancini ad Orvieto era un po’ di cose insieme: faccendiere per conto della Giustizia, fondatore della sede Orvietana del Circolo Dell’Utri ed attualmente segretario del rinomato “Circolo del buon Governo”, circolo fra i più affollati della penisola e al quale risultano iscritti un’ ottantina di soci siciliani, una quindicina di alti prelati, un paio di ambasciatori, una ventina di dirigenti ministeriali (circa duecento mila iscritti in totale). Secondo gli inquirenti Grancini si sarebbe avvalso di persone “prezzolate”, alcune già note agli inquirenti, e altre ancora non identificate per mettere a punto un “sistema” che gli consentiva di acquisire notizie riservate sullo stato dei procedimenti e di pilotare la trattazione dei ricorsi proposti alla Suprema Corte dai suoi “assistiti”. Braccio operativo del congegno, il secondo arrestato, attualmente condotto in carcere a Regina Coeli, l’ausiliario di cancelleria Guido Peparaio, al quale il Gip di Palermo Roberto Conti nel provvedimento emesso su richiesta dei procuratori Francesco Messineo e Roberto Scarpinato, contesta i reati di associazione esterna, divulgazione di notizie informatiche coperte da segreto e concorso in corruzione.
Nell’ambito dell’inchiesta due avvisi di garanzia sono stati recapitati anche al Grande Maestro Stefano De Carolis, esponente di spicco della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia e al padre gesuita Ferruccio Romanin, al quale, secondo l’accusa, sarebbero state fatte scrivere lettere dal faccendiere orvietano per “raccomandare alcuni imputati di mafia”. Chiamato a rispondere ai pm alcune settimane fa, Marcello Dell’Utri ha scelto di tacere e queste collaborazioni interregionali fra mafia e massoneria, continuano a rimanere un’incognita che genera più di un sospetto sull’ipotesi che a giudicare dai primi stralci emersi dall’inchiesta Hiram, l’Umbria, possa ospitare anche “onorevoli” pedine di marchingegni masso – mafiosi, leggi anche logge massoniche deviate.
Argomento tabù in Umbria più o meno come un tempo lo era parlare di mafia in Sicilia. Strana e sfortunata coincidenza. Lo affermava nel lontano 1994 Leoluca Orlando, oggi esponente dell’ Idv allora animatore principale del movimento La Rete in Sicilia, che dalle pagine di un quotidiano locale, in coincidenza con la pubblicazione dell’elenco degli iscritti alle logge massoniche umbre, all’epoca 3000, dichiarò “quando in Umbria finalmente scoppierà la questione morale potremo alla capire perché tante illegalità sono rimaste impunite. E scopriremo qui – come abbiamo scoperto altrove – che guardie e ladri, imputati e giudici sono per anni rimasti legati a vincoli di fratellanza massonica e in nome di quella fratellanza i ladri scappavano, le guardie dormivano e gli imputati venivano assolti e i giudici mortificavano la giustizia e tutto sembrava legale e tranquillo”.
Ma è l’intervento dell’allora capogruppo di Rifondazione Comunista a Palazzo Priori, Katia Belillo a spiegare ancora meglio questa commistione di interessi: “non è una novità per nessuno (l’iscrizione di politici anche si sinistra alla massoneria, ndr), fin dal primo dopoguerra, in Umbria, ma soprattutto a Perugia, il maggior partito ha sancito “un patto sociale” con la potente borghesia commerciale e professionale perugina per conquistare il centro storico, nel quale era escluso, e governare per la città”. Garante di questo patto era il sindaco – prosegue le Belillo – “spesso anche lui legato alla borghesia dall’appartenenza alle stesse associazioni o confraternite”.
La storia chiarisce dunque l’origine di un sistema. L’attualità, negli anni, ne ha messo in evidenza le devianze, le illegalità. Le due grandi logge massoniche presenti in Umbria sono da sempre Piazza del Gesù e Grande Oriente d’Italia. “Poi come ricorda la studiosa Piera Amendola – ci sono tutte le altre associazioni paramassoniche che nei primi anni ’90, quando venne stilata la relazione di Luciano Violante, erano circa 29. Da allora nessuno più se ne occupato, non è dunque improbabile che il numero sia notevolmente aumentato; singolare, inoltre, in Umbria la presenza di numerose logge massoniche femminili”.
Sospetti e compiacenze si alternano nell’Umbria che oggi è attenzionata dal potere di una seconda M, quella della mafia, che in altri territori, curiosa coincidenza si sviluppa su percorsi “talvolta” simili a quelli della Massoneria. E sempre, in altri territori, “talvolta” le due M si sono incontrate per decidere affari, spartire poltrone e finanziare progetti importanti.
Ma si tratta, in mancanza di ulteriori elementi, soltanto una strana e sfortunata coincidenza.
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