Panchine di Vita
Quando, alcuni
mesi fa, il Comune di una città del nord ha deciso di togliere alcune
panchine per impedire la sosta di persone che vivevano in strada, mi
sono sentito toccato nel profondo.
La storia del
Gruppo Abele nasce infatti sulla strada, ma parte proprio da una panchina.
Era un medico che non riusciva a perdonarsi di avere sbagliato un intervento,
con conseguenze letali per il paziente, la persona che incontrai un
giorno 44 anni fa. Un uomo tormentato, che aveva deciso di eleggere
a suo domicilio una panchina di Torino, e che quando accettò di farsi
avvicinare – aveva un carattere scontroso, difficile – mi fece il
regalo di raccontarmi la sua storia per dirmi alla fine: «non preoccuparti
per me, so cavarmela, occupati piuttosto di loro… ». E m’indicò
dei ragazzi che sostavano di fronte a un bar e che lui sapeva fare uso
di droghe, quelle anfetamine che erano gli stupefacenti più diffusi
prima dell’ondata dell’eroina negli anni settanta.
Da allora il
Gruppo Abele non ha mai smesso di sentirsi provocato dalla strada e
da tutto ciò che nella strada vive. Strada come luogo di domande e
di bisogni, di fatiche e di ferite, ma anche di possibilità e di cambiamenti.
Spazio di una diversità umana, sempre in cammino, che è gemella della
varietà della vita. Luogo di persone prima che di problemi, di una
complessità da affrontare restando semplici, essenziali, veri.
Ora su questo
popolo della strada, che non ha altro posto all’infuori della strada
per vivere, incombe una minaccia che si chiama sicurezza. La sicurezza,
non mi stancherò di dirlo, è un diritto sacrosanto, ma è un diritto
di tutti. Sicurezza è vivere la libertà insieme agli altri, non a
scapito degli altri. E’ condivisione di regole in un patto di cittadinanza.
Non è questa,
però, la sicurezza di cui tanto si parla. Una sicurezza che emargina,
discrimina, ghettizza, crea le condizioni per rigurgiti razzisti, come
purtroppo la cronaca recente testimonia. Che alimenta paure e costruisce
capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause dell’insicurezza,
l’iniquità di un sistema che demolisce i diritti rendendoci tutti
più poveri, più diffidenti, più insicuri.
Ecco allora
l’appellarsi alla sicurezza e al “decoro” – sua ipocrita declinazione
estetica – per nascondere ciò che sta dietro al diffondersi della
paura: un enorme deficit di giustizia sociale. Ecco il repertorio di
divieti e sanzioni che non colpiscono ormai più il reato ma la condizione
umana, accanendosi sulle persone più fragili, su chi arriva nelle nostre
città spinto dalla fame, dalle guerre, e che vede spesso aggiungere
al suo carico di sofferenza il peso insopportabile dello sfruttamento
e della schiavitù.
Ma non è così
che si costruisce la sicurezza. Sicure non sono le città attraversate
da muri materiali e culturali. Sicure sono le città che accolgono,
che tendono la mano, che si fanno in quattro per ospitare, che fanno
sentire lo straniero e il “diverso” loro concittadino, parte attiva
e responsabile della comunità. Che sono disseminate di servizi, punti
di riferimento, e che certo non progettano di eliminare le panchine.
Pensiamo a
come sarebbe povera una città senza panchine! Perché è luogo di vita,
una panchina. Lo è per i tanti immigrati che la domenica si riuniscono
nei parchi pubblici e là socializzano, condividono un pasto, organizzano
giochi per i loro bambini. Lo è per gli anziani che, sedendo tra il
verde, tutelano la memoria della comunità, raccontano e si raccontano
riassaporando il senso e il valore dei loro vissuti. Lo è per i ragazzi:
pensiamo agli amori di cui le panchine custodiscono gelosamente il segreto.
Ai tantissimi giovani che su quelle assi di legno hanno scoperto l’emozione
dell’amore, mosso i primi timidi passi di un’educazione sentimentale.
Ma ognuno di
noi potrebbe ricordare una panchina sulla quale ha riposato, scambiato
parole amichevoli, letto un libro. E ha riflettuto. Perché può essere
anche luogo di scoperta, una panchina. Occasione per aprire lo sguardo
a quello che a volte non possiamo o vogliamo vedere, dentro e fuori
di noi, catturati come siamo da un sistema che sembra privilegiare solo
relazioni convenzionali, pensieri superficiali, responsabilità limitate
Su una panchina
siamo stati raggiunti dai volti della povertà e dello sfruttamento,
abbiamo constatato come i diritti universali siano ancora oggi troppo
spesso carta e non carne, vita delle persone. Ma da una panchina
abbiamo potuto anche guardare oltre la strada, riflettere sulle ferite
della normalità, sulle solitudini che si annidano nei palazzi, sulle
tante fragilità timorose di uscire allo scoperto.
Ecco allora
che una panchina, presenza discreta ed essenziale, può diventare il
luogo in cui l’io si riconosce come noi, ritrova la propria
responsabilità e senso di giustizia. E avverte lo stimolo d’impegnarsi
in quei piccoli e grandi cambiamenti che maturano quando scopriamo nella
relazione con gli altri l’essenza più profonda della vita umana.
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