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Colombia, i narcos contro i sindacati

Di Anna Foti il . Internazionale

Un intreccio
complesso unisce le indagini di Falcone sui legami tra Cosa Nostra e
i narcotrafficanti colombiani, il primato della stessa Colombia nella
produzione di cocaina, il cambiamento di rotta   di questa
polvere bianca verso l’Italia della ‘Ndrangheta dopo l’arresto di Totò
Riina e Pablo Escobar nel 1993, la connivenza tra la malavìta calabrese,
i cartelli del narcotraffico e i gruppi paramilitari della nazione sudamericana
e infine le persecuzioni poste in essere da questi nei confronti dei
sindacalisti, specie se lavoratori dell’ingente sistema colombiano “Coca
Cola”.  

Un sistema
che la “The Coca Cola Company” disconosce, dal momento che gli imbottigliatori
colombiani lavorerebbero in franchising e non in uno stabilimento di
proprietà della multinazionale americana e ciò implicherebbe il mancato
controllo di questa sui rapporti sindacali gestiti dalla società imbottigliatrice
del posto. Eppure risultano ingenti investimenti nel Sudamerica da parte
di Coca Cola FEMSA. La stessa che per voce dei rappresentanti Juan Manuel
Alvarez e Juan Carlos Dominguez avrebbe ammesso che la multinazionale
americana non ha mai condotto alcuna indagine sugli omicidi e sulle
minacce ai sindacalisti nonostante le accuse, le critiche e le azioni
di boicottaggio intraprese contro lo stabilimento proprio in Colombia.  

Mentre adesso
si attende di sapere se sarà accolto l’appello proposto dal sindacato
colombiano Sinaltrainal che ha citato la Coca Cola e gli imbottigliatori
dinnanzi al tribunale degli Stati Uniti, gli omicidi dei sindacalisti
rimangono impuniti in un paese in cui la lista delle vittime, assassinati
o desaparecidos, è interminabile e anche il governo complice. Non si
placa la spirale delle persecuzioni nonostante il governo colombiano
reprima con decisione sempre maggiore il narcotraffico, al punto da
aver spinto adesso, secondo quanto dichiarato dal giudice Nicola Gratteri
della Dda di Reggio Calabria, la partenza dei carichi di polvere bianca
dal Messico e dai paesi più a sud della Colombia.  

La recente
operazione “Solare”  con 207 arresti e il sequestro di 16 tonnellate
di cocaina tra Italia, Usa, Messico e Guatemala, ha posto in luce questa
dinamica evidenziando la fruttuosa e criminale collaborazione tra la
‘Ndrangheta e il narcotraffico sudamericano, tutt’altro che insensibile
all’attenzione dei gruppi paramilitari del luogo. L’intreccio è
complesso appunto perché singole componenti fortemente invasive, radicate
nel territorio colombiano ed entrate in contatto con le fila del crimine
internazionale del narcotraffico, il cui quartier generale è in Calabria,
si riflettono anche sui diritti dei lavoratori e dei sindacalisti, definiti
da Amnesty International bersaglio prediletto dei gruppi paramilitari.
Gruppi armati finanziati dal narcotraffico ma spesso finanziati anche
dalle aziende per uccidere chi rivendica condizioni dignitose di lavoro.  

Molte tra le
rivendicazioni hanno riguardato, in particolare in Colombia, i lavoratori
Coca Cola iscritti al sindacato Sinaltrainal. Un intreccio complesso
perché, come avvenuto per altre grandi aziende quali la Nike, la conveniente
esternalizzazione della produzione nei paesi in via di sviluppo, possiede
in sé il rischio di rimbalzi e negazioni di responsabilità nei confronti
di violazioni di diritti. Nonostante siano state rilevate nell’impianto
sudamericano numerose irregolarità con riferimento alle norme di sicurezza
e di tutela della salute dei lavoratori e vi siano stati degli adeguamenti
in questo senso, nessuna indagine è stata mai condotta dalla The Coca
Cola Company per appurare eventuali legami tra i gruppi paramilitari
e i dirigenti della ditta di imbottigliamento colombiana. A questo ha
dato spazio l’inchiesta del giornalista inglese Mark Thomas pubblicata
sul quotidiano “The Guardian” e ripresa in una recente uscita del
settimanale “Internazionale” attraverso la voce di chi tutto questo
lo ha vissuto e continua a viverlo quotidianamente. 

Si chiama Oscar
Alberto Giraldo Arango. Ha 42 anni ed è sindacalista nel luogo in cui
esserlo  equivale a rischiare la vita. Nato e cresciuto nella campagna
colombiana di Urabà, mentre tra business e grattacieli Bogotà, la
capitale colombiana vanta una dimensione di modernità e di centro finanziario.
Qui sorge uno dei più grandi stabilimenti di imbottigliamento in cui
Coca Cola ha investito in modo significativo e ci sono tanti avvocati
e ong che difendono i diritti umani. Bogotà, la città in cui essere
iscritti al sindacato, un impegno diventato in alcune aree del mondo
quasi eroico, è pericoloso e se poi si lavora nel sistema Coca Cola
tra i rischi c’è anche la morte.  

Definito il
paese più pericoloso per i sindacalisti, in Colombia negli ultimi quattordici
anni sono stati uccise 2500 persone iscritte al sindacato. Giraldo conosceva
Josè Eleazar Manca, il primo ad essere ucciso nell’aprile del 1994.
Giraldo conosceva anche il secondo del lungo elenco, perché era suo
fratello Enrique.Una storia di persecuzione annunciata da una sede,
quella che ospita il Sindicato Nacional del trabajadores de la industria
de alimentos (Sinaltrainal), il più grande sindacato nel sistema Coca
Cola della Colombia, che ha vesti anonime come fosse destinata a non
essere vista o considerata.  

A seguito delle
persecuzioni, il numero degli iscritti che prima rappresentavano la
metà dei dipendenti dell’impianto Coca Cola, diminuisce. Costretti
a creare un sindacato clandestino, oggi i lavoratori di quella struttura
si riuniscono in segreto. L’inchiesta del giornalista inglese Mark Thomas
denuncia i retaggi storici che si celano dietro questa persecuzione,
gli intrecci di criminalità e gli interessi che gravitano attorno all’equiparazione
che i gruppi paramilitari presenti in Colombia operano tra guerriglieri
e sindacalisti.

Tutto cominciò
negli anni Ottanta quanto esplose il conflitto tra lo stato e la guerriglia
rivoluzionaria. Fu allora che la complicità tra parastato, multinazionali
e allevatori finanziò e alimentò una spedizione contro le frange rivoluzionarie,
allestendo dei veri e propri gruppi armati di difesa. Non trascorse
molto tempo che tali forze paramilitari si allearono al crimine dei
cartelli del narcotraffico – il leader del paramilitari Carlos Castano
riferisce di una fetta pari al 70 % di finanziamenti derivanti dal narcotraffico
– e all’esercito di stato formando delle vere e proprie squadre della
morte. Il loro scopo sarebbe quello di arginare militarmente i gruppi
di ribelli di sinistra. Di fatto, invece, oggi perseguitano chiunque
si spenda per il riconoscimento dei diritti umani, specie se sindacalisti.  

Il sospetto,
sempre più certezza, è che non vi sia motivo per cui le aziende e
le multinazionali non siano propense ad appoggiare direttamente o indirettamente,
omettendo di fare luce sui fatti criminosi, chi sostiene politiche economiche
neoliberiste come i paramilitari.  Mark Thomas denuncia altresì
che nonostante i pedinamenti, le minacce, le aggressioni, le intimidazioni
e gli omicidi, nessuna responsabilità si attribuisce alle multinazionali,
tra cui il colosso colombiano Coca Cola, e solo l’1% degli assassini
ha prodotto una condanna. Dunque un silenzio pesantissimo risponde all’appello
di centinaia di vittime. Il governo è latitante mentre il sindacato
viene distrutto e i suoi dirigenti morti o in esilio. Mentre i lavoratori,
senza più presidi di legalità, firmano nero su bianco la rinuncia
ai loro diritti e i dirigenti aziendali di Coca Cola Colombia abbassano
il salario.  

Mentre Coca
Cola rimane una delle parole più note e una delle bevande più vendute,
mentre molti si chiedono se il grave e impunito operato di pochi possa
inficiare un colosso commerciale immenso e affermato, persone perdono
la vita senza neppure una postuma giustizia. L’economia in realtà
non sarebbe sterile e ostinato profitto ma, etimologicamente, dovrebbe
scrivere la legge della casa. Una legge che, dunque, protegga e migliori
la vita non la spezzi.

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