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Reggio perde la sfida dei beni confiscati

Di Anna Foti il . Calabria

Quando il racket si fa sentire a suon di esplosioni di esercizi commerciali, cantieri o autovetture – come accaduto a Reggio Calabria negli ultimi due mesi e di recente all’impresa reggina Nava –  e i regolamenti di conti non disdegnano il ricorso alle armi e allo spargimento di sangue – solo qualche giorno fa a Sinopoli è stato freddato da due colpi di pistola il trentaseienne Domenico Cutrì, genero del boss Carmine Alvaro – tutto questo è segno inequivocabile che gli equilibri tra le ‘ndrine che si dividono un territorio sono in continuo assestamento.

Quando dietro la dicitura  “beni trasferiti in capo allo Stato o destinati ai Comuni”, si nascondono immobili ancora ospitanti affiliati o familiari mafiosi, è segno che invece altri equilibri reggono bene. La preoccupazione cresce, o dovrebbe crescere, quando gli interessi che muovono le persone protagoniste di questi equilibri hanno molti zeri, quando fondi inadeguati, cavilli e tutto ciò che si annida nelle pieghe di un sistema fortemente appesantito dalla burocrazia, impedisce agli amministratori onesti di gestire la cosa pubblica agevolmente, favorendo quanti mascherano così la propria negligenza, la propria incapacità, a volte anche la propria malafede nonché il crimine organizzato di stampo mafioso.

A ciò si aggiunga che il passato può ristagnare e generare violenza e le intimidazioni essere rivolte non solo agli imprenditori che non pagano ma anche ad altre famiglie, considerate da “avvertire” e famose nelle indagini delle forze dell’ordine come in quelle pagine della storia della nostra città che scaraventano tutti, due decenni indietro, alla seconda guerra di mafia. Molti a Reggio Calabria ricorderanno, e a lungo, gli avvenimenti della notte dell’11 agosto scorso quando sul centrale viale Aldo Moro un’esplosione radeva al suolo il bar “Dolce Sapore” di Luciano Lo Giudice, figlio del boss Giuseppe ucciso nel 1990 in tempi più che sospetti.

Le cosche sono costrette a fronteggiare il cambiamento quando operazioni investigative come Testamento, Vertice e Gebbione ascrivono colpi duri alle persone e ai patrimoni, senza dimenticare l’arresto del Supremo, Pasquale Condello, dopo quasi venti anni di latitanza, e il sequestro di beni, per un valore di milioni di euro. Operazioni che tuttavia finiscono con il diventare segno di sconfitta.

Siamo infatti a Reggio Calabria, in particolare in via Mercatello, ad Archi, dove sorge un immobile confiscato nel 1997 e trasferito al Demanio statale che lo assegnato al comune di Reggio Calabria nel 2001 e dove ancora vivevano i familiari del boss, in barba alla legge e alla sua applicazione consacrata in sentenza. Proprio nell’ambito dell’operazione Vertice, nel 2006, fu avviata, infatti, un’inchiesta sui beni confiscati a Reggio Calabria. Essa ha prodotto una lista di 370 nomi di persone, politici, amministratori e professionisti vari, interrogate dalla magistratura per rispondere di beni destinati all’amministrazione reggina da circa un decennio, poco dopo l’entrata in vigore della legge 109 del 1996 sulla riutilizzazione sociale dei beni confiscati, e mai effettivamente restituiti alla comunità in strutture e servizi.

Pur se con amarezza, giunge chiarezza sul perchè Reggio Calabria sia provincia leader, in una regione che è terza dopo la Sicilia e la Campania con 1100 beni confiscati, per numero di beni sottratti al patrimonio mafioso solo sulla carta e su cui le famiglie delle persone condannate ancora esercitano diritti, pur non essendone più titolari. Una delle tante stranezze tutte italiane, forse calabrese, ma in modo inequivocabile reggina. A fronte di un centinaio circa di beni insistenti nel territorio comunale reggino, si registra l’avviamento solo relativamente ad alcune esperienze – gruppo scout della parrocchia del Buon Consiglio che ha avuto in assegnazione un deposito di proprietà Libri, della cooperativa “Rom 1995” sorta nei locali degli Aquilino, del Cereso che ha allestito la propria sede organizzativa nei locali dei Labate e della caserma di Cannavò, un tempo villa Libri.

I Ros hanno evidenziato che altri impegni erano stati assunti dalle amministrazioni avvicendatesi nell’ultimo quindicennio che ancora oggi non sono stati onorati. Ciò è accaduto per alcuni immobili in via san Giuseppe, una volta proprietà della famiglia Labate e confiscati nel 1993. I ritardi sembrano la regola se pensiamo che un bene confiscato a Domenico Libri (classe ’34) confiscato nel 1987 e destinato al comune reggino nel 1999, è stato destinatario di un intervento finanziario solo alcune settimane fa, nel 2008, dopo ben 21 anni.

Una sconfitta ulteriore. Dopo la firma del recente protocollo siglato a Reggio Calabria dopo il quale il numero dei beni da destinare dal Demanio ai comuni calabresi su cui insistono i terreni e gli immobili e che prevalentemente ricadono nella provincia di Reggio Calabria, è sceso da quasi 500 a circa 250 unità, resta ancora spinosa ed esposta ad inefficienza delle risposte finanziarie, ritardi, lungaggini e ambiguità, la questione dell’assegnazione ad associazioni e cooperative e della riutilizzazione degli stessi, prerogativa delle amministrazioni locali. Centinaia di beni usciti dalla gestione del Demanio e affidati ai comuni, restano inutilizzati. Nonostante i fondi stanziati, di recente anche annunciati dal governatore Loiero ma che comunque rimangono insufficienti per gli interventi necessari, pochissimi godono di effettiva riutilizzazione.  Una sconfitta per la legalità.

Un contributo notevole, quello offerto dalla nostra regione, al divario tra beni confiscati e beni riutilizzati a livello nazionale. Se, grazie a questi protocolli, diminuisce il divario tra beni confiscati dalla magistratura e beni consegnati dal Demanio alle amministrazioni, resta aperta la questione dell’assegnazione e della riutilizzazione sociale a livello locale. L’informativa dei Ros parla chiaro. Questo accade nel comune e nella provincia di Reggio Calabria. Qui il meccanismo, già di per sè farraginoso, si arena per questioni burocratiche che si traducono per la cittadinanza, a cui è rivolta la ratio della legge, in una grave tolleranza della permanenza delle famiglie mafiose.

Sono ormai note, quindi, le effettive problematicità diffuse e legate a lungaggini processuali, a ritardi, ad inefficienze, ad occupazioni abusive, a condizioni di eccessivo abbandono e degrado in cui versano i beni e a fondi annnunciati, a volte erogati e non investiti altre volte solo promessi. Dopo anni di processo, nella maggior parte dei casi, per questi beni non sono disponibili, al momento della sentenza definitiva, adeguati fondi che ne consentano il ripristino e l’utilizzo. Tuttavia, secondo l’informativa dei Ros dei Carabinieri, a cui si deve il merito di avere peroceduto a quella catalogazione necessaria per una concreta applicazione della legge, il comune di Reggio Calabria ha anche il primato di essere ritardatario e inosservante delle regole nelle assegnazioni, ultimo stadio del procedimento di riutilizzazione sociale del bene confiscato. La cosa più triste è che in questo modo, la ‘ndrangheta si aggiudica fuori dai tribunali quello che i tribunali sarebbero riusciti a sottrarle. E ciò avviene laddove continuano a restarne fruitori o laddove l’abbandono e il degrado imperano indisturbati ma, per i pochi che hanno orecchie, pesantemente parlanti. Così la ‘ndrangheta vince. Un’altra volta.

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